L’uso imperfetto dei tempi: ridateci il futuro.(dall’Unità di oggi, pag.7)


C’è un bell’articolo sull’Unità di oggi che avrebbe meritato un bel dibattito, profondo (invece del solito toto nomi che non risparmia nemmeno l’edizione di oggi, ecco l’ho detto). Lo scrive Tony Jop a pag.7. (Ve lo linko appena diviene virtuale).

L’articolo parte da un sondaggio fatto a Treviso, cittadina florida (dentro le mura) e di provincia del ricco nord-est che, vi comunico, non è più ricco.

Nel sondaggio un giornale locale interroga i giovani sull’uso dei verbi e scopre che la giovane generazione predilige il verbo indicativo (presente) e raramente sa coniugare i verbi.

Ho vissuto a Treviso due anni della mia vita e quello che ricordo è l’impatto estetico del tempo. Vivevo in centro, ma solo per caso. Qui, a Roma, posso uscire in pigiama per andare a spostare la macchina o in pantofole per accogliere il postino, persino in mutande se volessi, quasi. Insomma, potrei uscire fuori, in mezzo alla gente, sul marciapiede, con il mio passato addosso, quello prossimo, quello del sonno, senza curarmi di ciò che pensa la gente, perché nel 90% dei casi la gente non penserebbe nulla o magari sorriderebbe e io gli spiegherei un fatto di comodità.

A Treviso, sbucavi dal portone ed eri dentro una sfilata di presente perfetto, passeggini Mercedes, polo Ralph Lauren, SUV che nemmeno passano nei bei vicoli sui canali di una Venezia lontana dal mare, ma non per questo meno intensa e meno carica di storia. Diceva il mio amico Andrea, imprenditore locale, gran lavoratore e mai visto vestito alla moda – e di destra -, che lì, avrebbero mangiato pure pane e acqua pur di “mostrarsi” perfetti e ricchi.

Lo stesso accadeva a Stezzano, ridente cittadina della bergamasca, ma NON accadeva a Torino, quindi non dite che è un fatto di Nord. La mia famiglia era l’anomalia. Disordinata, meridionale, colta, non c’entravamo un cazzo in una villetta a schiera con il giardino tagliato e il pastore tedesco troppo buono con tutti.

Nei piccoli centri si vive dentro un Truman Show dove tutto è sotto controllo, dove il Grande Fratello è arrivato prima e il gossip batte Signorini 100 a 1, lui l’ha solo patinato e ci ha fatto un business o un’arma di distrazione di massa o di distruzione del nemico del finanziatore, sempre B.

Ma vado oltre e citerei un libro che non mi è piaciuto, ma ne parla ampiamente in modo estremo, L’Ubicazione del Bene.

Arrivo ad un libro parlando di tempi, perché nessuno di noi, oggi, che scrive (la maggior parte almeno) userebbe mai il passato remoto per raccontarvi una storia. Ciò che accade nel verbale televisivo e finto (dove non esiste il passato in cui hai dormito e fatto le bave sul cuscino o scolpito una vertigine nei capelli una foglia di insalata tra i denti perché perdio avrai pure mangiato e ruttato e cagato, prima di uscire vestito come un modello della tv) sta accadendo da anni nei libri che scrive la mia generazione. Le frasi, i tempi, costituiscono tanti ciak istantanei, tanto da trasformare la letteratura in sceneggiatura, ma più in romanzo che racconta, ma in parole che tentano di sfondare il muro dell’invisibile e creare immagini.

In un mondo il cui tempo si è fatto corto, in cui se ti innamori non spedisci più lettere d’amore (ti mandai quella lettera ricordi? Oggi è: ti ho mandato un sms non mi hai risposto. Un minuto fa), se aspetti una risposta l’aspetti subito, ora, adesso, abbiamo annullato i tempi dell’attesa, perché mai dovremmo usare il passato remoto, che ricorda solo i nonni, ma si fa così sbiadito che preferiamo l’uso dell’imperfetto, in cui ci riconosciamo di più.

Siamo televisivi, istantanei, verbalmente delle polaroid persino usa e getta.

Il passato remoto è il tempo delle favole e dei sogni, quelli morti ammazzati e consumati tutti negli anni sessanta e settanta, perché mai dovremmo averlo caro, questo tempo imperiale e immaginifico, quando noi siamo figli di parole come precario, cinismo, disillusione.

Ecco, forse, nel tanto agognato romanzo che prima di politico dovrà essere esistenziale e culturale, dovremmo recuperare l’uso del futuro, quello sì. Il passato remoto, lasciatecelo dimenticare, non insistete, non ci appartiene.

Il futuro, quello sì, ridiamocelo.

3 pensieri riguardo “L’uso imperfetto dei tempi: ridateci il futuro.(dall’Unità di oggi, pag.7)

  1. ma se ce li riprendessimo proprio tutti quanti, i tempi e i mo(n)di che ci appartengono, che parlano di noi e degli altri a noi e agli altri, dando un senso di profondità e armonia a ciò che diciamo, e che soprattutto sono bellissimi da leggere e ascoltare, non sarebbe un gran cosa?

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  2. Ho letto il tuo commento che condivido…ma vorrei aggiungere che il libro “L’ubicazione del bene” può essere ridondante e fastidioso in alcuni punti ma lo trovo veritiero e forse unico nel modo di descrivere come si vive, cosa is sogna, cosa si attende nelle casette da geometra costruite nelle nostre periferie. . Infatti lo faccio leggere ai miei alunni di 5 superiore geometri assieme ai libri di Vitaliano Trevisan e di Andrej Longo (che scrive di Napoli) Libri che parlano del presente ma guardano al futuro…con allarme ma anche con speranza e forza e con un forte richiamo all’etica collettiva. agnese

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