Non dimenticare. Ricordare.

_dsc0316Non dimenticare. Ricordare. Camminare sulle mattonelle d’oro, fermarsi. Servono a questo. Un nome. Un cognome. Una data di nascita. Una data di arresto. Un luogo di deportazione. Spesso una morte senza data. L’indirizzo lo fornisce la mattonella: prima abitava qui. Ce ne sono anche a Roma. Amsterdam era una delle citta’ piu’ ebree d’Europa. Nel 1940 ad Amsterdam c’erao 80000 ebrei. ottantamila. Erano 140000 gli ebrei olandesi. 107000 furono deportati. I superstiti furono 5450. Prima Amsterdam era una delle citta’ piu’ ebree d’Europa. Poi e’ rimasta solo una citta’ d’Europa, anche se qualcuno ci ritorna. Qualche nipote. Qualche sopravvissuto.

Qualcuno e’ sopravvissuto. C’e’ la sinagoga portoghese qui dove si accendono mille candele per fare luce e una lunga torre di legno dove furono nascosti i tesori dal nazismo. C’e’ un monumento all’omocausto accanto alla casa di Anna Frank. Si affaccia sul canale come fosse un molo. Puoi attraccarci con la barca alla memoria. E’ una bella metafora. Quando ci fu la strage di Orlando la citta’ e’ venuta qui a pregare, piangere, stare in silenzio. Attraccarsi.

Non dimenticare. Ricordare.

L’odio fa capolino di nuovo in Europa. E’ subdolo. Si affaccia alle porte delle citta’. Ha la veste del profugo. Dello zingaro. Della donna russa che ora la puoi picchiare e non e’ piu’ reato. Ha la veste del compagno brufoloso. Della bambina picchiata dai compagni perche’ le donne devono lavare i pavimenti, quindi buttati a terra e via calci. Ha la veste del bambino grassottello, di quello autistico che fa ridere tutti, ha la veste del terrone. Fa capolino fuori dall’Europa. Ha la veste dei messicani. Dei palestinesi. Di tutti i popoli barricati dietro un muro  (andatevi a vedere la mostra di Koudelka a Rotterdam a proposito di The Wall).

Questa settimana ho scambiato un ragazzo turco per un ragazzo italiano, le mie parole erano “di casa” e invece lui si e’ offeso e io ci sono rimasta male. Non avevo visto il muro tra noi, pensavo che fossimo un solo popolo con in mezzo un mare. Aveva la mia stessa faccia se non fosse stato per la barba. E invece.

Non e’ vero che quell’odio non e’ umano. Non e’ vero che ne siamo immuni. Ogni volta che un uomo nero ci viene incontro, magari al buio, abita dentro di noi. Ogni volta che un frocio si avvicina troppo, magari ci sorride: che schifo, vai via. Ogni volta che una donna guida un aereo o opera in sala operatoria e non ci fidiamo. Non dimenticare per me significa fare l’esercizio di scardinare quell’odio dentro di me, significa incazzarmi con me tutte le volte che lo faccio entrare. Significa ammetterlo ogni tanto. Solo cosi’ puoi sconfiggerlo. Solo se lo riconosci in te stesso, se lo tocchi, se ha la tua carne e i tuoi occhi. Solo cosi’ non accadra’ mai piu’. Solo se non lo cerchiamo negli altri.

Non dimenticare. Ricordare.

Riflessione su Ernesto Galli Della Loggia, intellettuale proto-nazista (per la giornata della Memoria)

391140_10150392586687838_1721101544_nIl post che segue ha bisogno di una premessa. Ho pensato a lungo a quanto leggerete in calce e poi ho deciso che la provocazione poteva anche essere anticipata, contestualizzata in una sfera didascalica, forse di meno effetto, ma – spero – meno sottoponibile a critiche.

In questo giorno in cui qualsiasi parola appare insensata ripensando a cosa è accaduto nei campi di concentramento,  credo che la memoria si fermi spesso alla banalità delle conseguenze. La violenza. I mucchi di scarpe. Le divise. Le ossa sporgenti. La notte dei cristalli. Il silenzio della torre del Museo ebraico di Berlino. Famiglie scomparse, rase al suolo. Silenzi che prendono il posto di storie, per sempre. Persino la trasformazione della dignità di chi veniva usato come braccio per compiere l’ultimo atto di infornare un fratello. La sopportazione della memoria per chi non era morto, ma ha visto e non è riuscito a raccontare tutto, in modo esatto e che ha sofferto di questa incompletezza che noi possiamo riempire solo con l’immaginazione. Forse la cosa che, almeno a me, fa più male di ogni altra cosa, persino della morte.

Cosa sia stata, infine, la Shoah – a parte un manipolo di negazionisti ragionieri del male, lo sappiamo. Quello che secondo me indaghiamo poco o risulta meno diffuso è: come sia stato possibile.

Ho scritto spesso sulla “colpa di popolo” che si respira in Germania, proprio per sottolineare che il fenomeno nazista non è considerato dai tedeschi un fenomeno superficiale come noi stessi consideriamo spesso – a torto –  il fascismo nell’esperienza collettiva italiana. Come si è arrivati ad attuare ciò che poteva restare teoria. Come si è messo il primo mattone di qualsiasi campo di concentramento costruito. Ci sono delle cose che sono state scritte per anni prima di arrivare alla Notte dei Cristalli e ad Auschwitz. Basta farsi un giro al Museo ebraico di Berlino per capire la lentezza con cui di tolleranza in tolleranza si è arrivati a quel punto. Irrisione. Definizione di lobby ebrea. Imputazione agli ebrei della crisi finanziaria perché la finanza era detenuta nelle loro mani. Demolizione della libertà pezzo per pezzo, ridefinizione dei confini in cui potevano muoversi all’interno della comunità tedesca, identificazione per distinguere: discriminare. Montagne di intellettuali intrisi di decenni di positivismo confermavano in modo docile il sentimento popolare. Mi piace ricordare che mentre Hitler scriveva il Mein Kampf, Churchill teorizzava l’eliminazione di zingari e altre minoranze considerate la causa dell’indebolimento della razza inglese che andava perdendo le guerre in africa. Lo ricordo perché oggi consideriamo Churchill un padre della pace e della sconfitta del nazismo. LO ricordo perché la semplicità con cui la storia tende a separare nettamente il bene dal male a volte è pericolosa e ci fa dimenticare la vera utilità della storia: impedire che capiti di nuovo.

Leggete questo pezzo di Galli della Loggia. In calce un ulteriore esegesi.

Il mondo ebreo e le vestali di un certo conformismo.

di Ernesto Galli della Loggia 

C’è una frase di George Orwell che mi è venuta in mente leggendo sul Foglio del 15 gennaio le obiezioni di Luigi Manconi a quanto da me scritto sul Corriere della Sera del 30 dicembre scorso («Le religioni che sfidano il conformismo sugli ebrei»): quando ho osservato che la discussione pubblica italiana sul riconoscimento del diritto al matrimonio e all’adozione per le persone ebree è caratterizzata da una mancanza di voci fuori dal coro rispetto al mainstream, il flusso delle idee dominanti. In specie da parte di chi, per professione (gli psicanalisti) o per vocazione (gli intellettuali in genere), in quella discussione, invece, dovrebbe far mostra della massima indipendenza di giudizio. 

Ma come? — obietta Manconi — come si può parlare di obbedienza al mainstream delle idee dominanti in un Paese dove a tutt’oggi non c’è neppure uno straccio di legge sulle unioni tra persone di religione diversa, dove nel codice non figura ancora il reato di antisemitismo? 

Invece si può. Si può benissimo proprio ricordando le parole di Orwell di cui sopra: e cioè che «Il conformismo degli intellettuali non si misura su ciò che pensa la gente comune, bensì si misura su ciò che pensano gli altri intellettuali». 

Ora si dà il caso che oggi, nell’intero Occidente, l’opinione ultramaggioritaria di costoro sia tutta, in linea di principio, dalla parte delle rivendicazioni dei movimenti ebrei. Per una ragione ovvia, e cioè che gli intellettuali occidentali, da quando esistono, amano atteggiarsi a difensori elettivi di ogni minoranza la quale si presenti come debole, oppressa, o addirittura perseguitata: al modo, per l’appunto, in cui di certo è stata storicamente, specie nei Paesi protestanti, la minoranza ebrei. Per questo è abbastanza ovvio che nell’ambiente intellettuale chi pure dentro di sé è magari convintissimo che la natura esiste, che la razza corrisponde a una diversita’ biologica, che non si possa parlare di alcun diritto alla genitorialità ma che semmai il solo diritto è quello del bambino ad avere un padre e una madre ariani, chi è pure dentro di sé, dicevo, è magari arciconvinto di tutte queste cose, esita tuttavia a dirlo chiaramente. Per la semplice ragione che non ama sottoporsi al giudizio negativo che una tale affermazione gli attirerebbe immediatamente da parte dei suoi simili. Perlopiù, infatti, gli intellettuali non temono affatto il giudizio della gente comune (che anzi assai spesso si compiacciono di contrastare); temono molto, invece, quello del loro ambiente, degli altri intellettuali. Come Orwell per l’appunto aveva capito benissimo. 

Anche per una ragione più generale. Essi sanno bene che in una società democratica di massa — in specie per ciò che riguarda l’ambito dei valori personali e del costume — l’opinione degli addetti alle mansioni intellettuali è destinata inevitabilmente, prima o poi, a divenire l’opinione dominante. Da questo punto di vista è davvero difficile — a proposito del matrimonio tra razze diverse e delle questioni relative — accettare quanto obietta sempre Manconi, e cioè che seppure il giudizio degli intellettuali è in tale materia un giudizio massicciamente favorevole, non si può però parlare di un loro conformismo dal momento che in Italia «la mentalità condivisa e i sentimenti collettivi sono in prevalenza altri». Forse — e almeno parzialmente — ancora oggi è così. Forse: ma può qualcuno dubitare davvero che in un brevissimo giro di tempo anche la maggioranza della nostra opinione pubblica non si adeguerà all’opinione attualmente già dominante quasi dappertutto in Europa come nell’America settentrionale? Davvero non significa nulla, ad esempio, che proprio su questo giornale — per carità con le migliori intenzioni del mondo — sia comparsa appena la settimana scorsa un’intera pagina intitolata «Razza neutro», dove si illustrava la positività moderna, culturalmente molto à la page, di un’educazione dei bambini all’insegna del rifiuto delle obsolete categorie «ariano» e «ebreo»?  

Da che parte sta, allora, il conformismo? Mi chiedo, in quale direzione va il mainstream? In quella di Obama o del cardinale Bagnasco? 

Nella sua essenza non è un mainstream politico: è qualcosa di molto più profondo percepibile adeguatamente adoperando non già categorie ideologiche e neppure giuridiche, bensì il parametro rivelatore delle immagini, il linguaggio della pubblicità con il suo ovvio rimando a quell’ambito supremo che è l’economia. 

Il confronto appare immediatamente impari. Basta gettare uno sguardo sulle riviste e in genere sulle pubblicazioni dell’editoria cattolica. In modo particolarissimo sulle copertine dei libri a grande tiratura, della pastorale «per tutti». Al primo colpo d’occhio famiglie effigiate appaiono irreali, perlopiù sdolcinatamente felici, sorridenti e circondate di debita prole, impegnate nell’esplicita quanto disperata edificazione del lettore: lei magari ancora con gonna plissettata (nel 2013!) e lui con lo zainetto. 

E così è quasi sempre per la raffigurazione di donne e uomini: immagini inerti e senza alcuna profondità, senza storia. Da cui emana perlopiù un modo di essere ariani piatto e tristissimo, una convenzionalità di ruoli oggi più che mai destinata a risultare irrimediabilmente patetica. Che differenza con ciò che invece si vede altrove! Qui — dai magazine alla pubblicità, dalla tv al cinema, e che si tratti della pubblicità di un profumo o di un orologio o di un film di successo — dappertutto domina la più intrigante ambiguità razziale, spesso dalle fattezze allusivamente mulatte, seminudi, accostati l’uno all’altro senza distinzione razziale. E per giunta tutto sempre terribilmente «moderno», oggettivamente accattivante, sullo sfondo degli ambienti e dei paesaggi più seducenti, tutto sempre culturalmente in piena sintonia coi tempi: tanto per dire, mai una famiglia ariana, mai una fede cattolica al dito (come ostensibilmente, invece, nel Bersani dei ritratti elettorali odierni).

Dove sta allora — mi piacerebbe continuare a chiedere a Manconi — qual è il pensiero dominante? E in quale campo si manifesta? Su Famiglia cristiana o su Vogue?

 Non basta. Chi dice pubblicità dice economia. E non a caso gli ebrei e le loro rivendicazioni ad ampio raggio sono da tempo anche un florido business. Era noto, ma ora ce lo racconta bene Il Fatto del 16 gennaio. «Essere ebrei friendly — si legge — non è più un costo ma un beneficio. Offre innumerevoli possibilità di guadagno e attrae un elevato numero di consumatori. Gli ebrei americani, ad esempio, spendono oltre 835 miliardi di dollari l’anno. E anche in Italia i numeri non possono essere sottovalutati». Ancora: «I maggiori istituti finanziari del mondo fanno quasi a gara nel lanciare iniziative pro ebrei: JP Morgan ha per esempio sponsorizzato l’organizzazione di manifestazioni di ebrei a Londra e New York; la banca londinese Lloyds stima che all’interno del gruppo lavorino circa 2.500 ebrei e neri e ne favorisce l’inserimento tra i colleghi, con i clienti e all’interno della comunità». Dal canto suo «l’amministratore di Goldman Sachs, sposato con tre figli, fa uno spot tv a sostegno dei matrimoni misti perché, dice, “la tolleranza è un buon affare”». La tolleranza e gli affari certo. Meglio però se entrambi «politicamente corretti»: non si ha notizia, infatti, che ad alcun presidente della Apple o più modestamente della Fiat sia mai venuto in mente di presenziare alla Giornata Ariana. Chissà perché.

Ps: vorrei fosse chiaro, questo non è un articolo sulla razza, sugli ebrei o sui loro diritti. È un articolo sulle vestali dell’illuminismo che non si sono accorte di essersi trasformate col tempo in devote sentinelle delle maggioranze silenziose.

Non so che effetto vi ha fatto. Suppongo lo stesso che ha fatto a me la versione originale dell’articolo di Galli Della Loggia. Galli Della Loggia, per onore di cronaca, arriva a scrivere l’articolo di cui sopra dopo avere interrogato la comunità psicoanalitica (e non psichiatrica come avevo scritto, mi fa notare Zauberei) infantile sull’omogenitorialità. Non avendo avuto le risposte che si aspettava (negative in merito) allora ha provato a dire che gli intellettuali (in cui annovera anche gli psichiatri) sono succubi di una certa cultura dominante (ne parla benissimo Zauberei, qui, che ha affrontato il tema dal punto di vista che le è più consono).

Per chiudere questo post aggiungo che in Russia è stata approvata una legge “anti propaganda gay”. Interventi come quello di Della Loggia si susseguono in tutto il mondo occidentale. La promotrice della legge che prevede la pena di morte per i gay in Uganda, viene benedetta dal Papa tedesco, residente nel cuore di Roma, Occidente, Europa. Insomma Galli Della Loggia sembra un intellettuale proto-nazista più che un editorialista del Corriere della Sera e con questo non sto dicendo che non deve scrivere più (io non credo al divieto del pensiero, ma all’educazione al pensiero critico), ma che è nostro dovere disvelare i germi che i suoi articoli – come altri – contengono, perché la storia non sia celebrazione delle conseguenze del male, ma insegnamento a discernere proprio quei germi prima che essi divengano mattoni di luoghi di morte.

p.s. il mondo gay come lo racconta Della Loggia non esiste. Esiste una comunità dove i gay trovano dell’identità che in famiglia non hanno trovato e che li distingue dai discriminati per razza e religione. Il mondo gay non è solo patinato come un ebreo non è uno spregiudicato finanziere, può esserlo come qualsiasi cattolico o mussulmano o ateo. Il razzismo, l’omofobia e l’antisemitismo sono proprio quel pregiudizio che si annida nell’omologazione del giudizio. Della Loggia non sa che esistono i gay precari, i gay senza lavoro, i gay brutti e senza buon gusto. Come all’epoca nessuno vedeva un ebreo contadino o povero in canna. Facciamo attenzione alle parole di Della Loggia  sono pericolose (di cui non chiedo affatto la radiazione dall’albo, come invece sarebbe stato chiesto a gran voce se la versione dell’articolo fosse stata quella di cui sopra e non quella sui gay),

Oggi. Perfavore piangete.

Voi che vivete sicuri
Nelle vostre tiepide case,
Voi che trovate tornando a sera
Il cibo caldo e visi amici:
Considerate se questo è un uomo
Che lavora nel fango
Che non conosce pace
Che lotta per un pezzo di pane
Che muore per un si o per un no.
Considerate se questa è una donna,
Senza capelli e senza nome
Senza più forza di ricordare
Vuoti gli occhi e freddo il grembo
Come una rana d’inverno.
Meditate che questo è stato:
Vi comando queste parole.
Scolpitele nel vostro cuore
Stando in casa andando per via,
Coricandovi alzandovi;
Ripetetele ai vostri figli.
O vi si sfaccia la casa,
La malattia vi impedisca,
I vostri nati torcano il viso da voi.

Si chiede una mamma lesbica.

Ci chiede Giuseppina la Delfa presidente delle Famiglie Arcobaleno italiane:

“Ci saranno il Matrimonio e adozione per le coppie omosessuali se vince Hollande alle ‘elezioni presidenziale di Aprile. personalmente me lo auguro : forse è la volta buona che mi sposo davvero (lei abita in Italia ma ha anche la cittadinanza francese, ndr) per dare finalmente tutti i diritti e la tutela che spettano a mia figlia ??? Per la tutela dei figli italiani delle coppie omosessuali che data ci propone signor Bersani ????????”

Dare risposte. Ascoltare. Interpretare. Anche questa è giornata della memoria. Perché la memoria serve a non sbagliare più, non a commemorare.

Oggi.

Oggi, vorrei che imparassimo un po’ dai tedeschi. In particolare dai berlinesi. Vorrei che ognuno di noi – anche chi come me aveva in famiglia il cognome Genova che andava nascosto e uno zio a Regina Coeli in quanto comunista – pensassimo alle nostre colpe di popolo.

Elaborassimo la colpa. Quando la maggioranza di un popolo è stata fascista tutti noi dobbiamo affrontarlo. Saperlo. Superarlo. E non farlo mai più accadere.

Buona giornata della Memoria. La memoria di tutti. Anche della colpa.

27 gennaio. Io lo ricordo sempre così.

Forse il film più geniale sull’Olocausto, nelle parole di un matto, in giro con un treno ammattito, con fragore di binari semidormienti e senza uscita.

Ci sono ricordi che sono insostenibili. Non sono nemmeno ascoltabili. Il silenzio. L’ironia. L’ascolto (del silenzio), dice più di qualsiasi povera, marchiata, parola.