Cari Compagni ma dove eravate? (Lettera a Livia Turco)

1542970-bersalemaVolevo scrivere a Livia Turco personalmente quando ho letto che si è commossa e si chiedeva in una qualche intervista se il partito di Renzi, qualora lui vincesse (ricordo a tutti che non ha ancora vinto) avrebbe riconosciuto la sua storia, la storia di quelli come lei.

Dice Livia Turco, riferendosi alla questione “tesseramento”: ““Vengo dalla storia del Pci, Pds, Ds e ho vissuto la politica come grande passione. Questi fenomeni di degenerazione sono stati molto dolorosi. Io ed altri militanti non siamo qualcosa di arretrato, non siamo zavorra. Veniamo da quella scuola lì ed è stata quella scuola che è stata mortificata. E se questa scuola non la troverò più nel Pd non esito ad andarmene”

A Livia Turco, che stimo e conosco, vorrei chiedere se quella storia sia tutta lì, nel modo ubbidiente e monolitico di fare i congressi, al massimo affrontando qualche dilaniante scissione tra compagni (consiglio ai fanatici del tema il film Mario, Maria e Mario di Ettore Scola, 1993). Mi piacerebbe chiederle perché dal 2008 ad oggi, siccome le modalità democristiane fino ad ora sono servite per avallare le scelte dei vecchi compagni, andava tutto benissimo. E guardate che io me lo ricordo benissimo quando Rutelli fece gonfiare le tessere della Margherita cosa che poi ebbe impatto anche sui pesi della fondazione del PD.
Insomma quella storia se aveva del buono lo ha perso completamente. Mi dispiace dirlo così brutalmente. Quella storia ha adottato tutti i peggiori vizi del compagno (ehm, amico) di strada. E loro, gli ex DC per inciso, hanno preso i nostri. Quelli che il dibattito è insano. Il dissenso è da spazzare via. Le critiche sono turbolenza che disturba il grande timoniere che sa cosa è buono per il suo popolo. Per la vostra generazione è stata una fissione a freddo. Per la nostra è stata partire tutti insieme, con un’unica storia.
Il PD era nato proprio per essere contendibile e permeabile alla base e agli elettori, visti come corpo sociale con diverso livello di militanza, ma di pari dignità. Ma come possiamo alzare un muro tra noi e gli elettori, Come possiamo giudicare i diversi livelli di impegno politico in un tempo precario come il nostro?
Mi fa ridere D’Alema che si domanda chi smonterà i gazebo se vincerà Renzi. Qualcuno gli dica che i militanti (forse non quelli che ancora obbediscono a lui militarmente) non li montano nemmeno più i gazebo. Né alle primarie né alla festa dell’unità. Si paga una ditta esterna. Poi i militanti li tengono aperti, ovvio, che non è più come una volta, anche le vite della base sono cambiate, i lavori hanno orari diversi, i giovani sono precari, fanno invisibili turni di 12 ore al giorno, lavorano se serve anche la notte e nei finesettimana. I militanti non attaccano nemmeno più i manifesti. Dove funziona li attacca il comune, dove non funziona li attaccano migranti abusivi, sì, cara Livia, anche quelli dei cari compagni romani, per dire.
Alcuni compagni grazie alla legge elettorale regionale che misura la politica sulle preferenze individuali hanno imparato a finanziarsi in qualche modo se no con gli ex DC  non competevano. Insomma hanno avallato un metodo, si sono adattati. Questa mutazione genetica tra ex è avvenuta da anni, mi meraviglio che la vediate adesso. Persino chiedere alla CGIL di schierarsi ai congressi di partito, fa impallidire la storia del sindacato che aveva il volto di Lama e Di Vittorio. Quale indipendenza credibile ha un sindacato se partecipa ad un congresso di partito che un giorno può governare e legiferare sul lavoro?
Insomma non sarà un ragazzo della mia età a rottamare la tua storia cara Livia.
Lo hanno già fatto gli ex compagni che ci hanno portato fin qui. Non sarà Matteo Renzi a determinare quella svolta che ti commuove. Quella è già avvenuta. Sarà Matteo Renzi, speriamo, a dare vita alla sinistra del terzo millennio (ne parlavo qui un anno fa). E, credimi, io sono tra quelli che non hanno l’anello al naso e che vedono benissimo gli spostamenti di personaggi che ieri stavano con Bersani ed oggi sono con Renzi. Sono sempre gli stessi, Livia. L’anno scorso stavano di là con “voi”. Se a vincere fosse qualcun altro, anche fuori dal PD, andrebbero con quel qualcun altro.
Ho profonda stima di chi come te crede in un’idea di sinistra e di etica (per il fatto stesso che ci credo quanto te) e sono contenta che non tutti salgano sul carro (anche se avrei preferito te a tanti altri): mi racconta di coerenza e chi è coerente ha sempre la mia stima.
Quello che posso dirti è che nel PD del 2014 ci deve essere molto posto per la tua esperienza e la tua dolcezza piemontese e molto poco per chi oggi porta voti a Renzi pensando di ottenerne qualcosa. Per capirci esistono Crisafulli in tutto il Paese e non tutti stanno con Cuperlo.
La vera sfida di Matteo Renzi e della nostra generazione politica (non generazionale) è quella di mantenere ciò che stiamo dicendo. Se l’operazione Renzi (qualora vincesse) sarà un’operazione di trasformismo politico dei soliti furbetti, quello allora sarà un vero fallimento. Ma quella era già la sorte scritta di Bersani nel 2012.
Sta a noi ribaltare il principio del Cencelli e importare  il merito dentro una grande forza politica popolare. Sogno, lo dico sempre, un Partito Democratico che contenga la politica come il Labour inglese.
Che resista ai moti scissionisti e personalistici perché avere a cuore un partito grande ed unito è avere a cuore la governabilità del Paese. 
Ti ho scritto proprio oggi che il PDL si scinde. La loro frantumazione, il loro egoismo intorno a Berlusconi non è la nostra cifra politica.
Il PD sta solo finendo di nascere e il tuo posto è qui. Con noi.

I Congressi del PD: le regole inutili e gli eterni cammelli.

Voi lo avete visto che in questi mesi ho parlato poco il che non significa che io non osservi, non veda, non rilevi le cose (tante) che ancora non vanno nel PD e che non mi incazzi.

Scrivo poche righe su quello che sta accadendo in questi giorni un po’ in tutta Italia e poi vi dico perché sta accadendo.

Sto nel PD (molti di noi ci stanno) perché nel DNA c’è il tentativo vero di decidere le cose in modo partecipato, dandosi delle regole non solo per votare le persone, gli organi, ma anche per “vivere” quella partecipazione. Siamo ancora al paleolitico sul tema: non sappiamo ancora “aprire” la partecipazione a chi non vive di partito e soprattutto facciamo regole che possano essere aggirate.

Per esempio abbiamo deciso che dovevamo fare i congressi cittadini in una data (e farli chiusi ai NON iscritti), poi fare quelli nazionali l’8 dicembre che invece sono aperti (al netto della convenzione di “accesso” dedicata agli iscritti) ed infine di fare quelli regionali in primavera.

Un errore NON farli tutti insieme anche se qualcuno dice che è meglio così, perché così non ci sono candidati che basta che gli metti l’etichetta “Renzi” e li votano anche se sono analfabeti (non è che qui non le mandiamo a dire, come è noto).

Un errore consentire il tesseramento anche durante le operazioni di voto, di un voto di cui nessuno sa (a Roma qualcuno che non sia del PD sa per caso che si sta votando per il segretario romano? No, appunto, non ve ne frega nulla) e quindi succede quello che sta succedendo in alcuni circoli che invece di arrivare cammellati a votare alle primarie aperte, arrivano i cammellati a farsi la tessera (un’operazione un pochino più costosa delle primarie aperte) e gli iscritti, giustamente, si incazzano perché questi non li hanno mai visti e anche se è corretto normativamente parlando, NON è etico.

E porca miseria, sarà il caso anche di riconquistare un po’ di etica se le regole non riescono a crearla.

Così a Trastevere c’è qualche renziano (ha ragione Matteo: renziano è una malattia), ma poteva essere di chiunque altro, i cammelli non hanno colore, hanno solo “interesse”, che vuol fare vedere quanti voti ha portato pensando che Renzi ragioni come gli altri e gli darà un premio, una seggiola, contando i voti del candidato renziano portati in quel circolo.

La stessa cosa sta avvenendo in altri circoli da parte di tutti i candidati, forse ad eccezione di Lucia Zabatta (candidata civatiana appoggiata da pochissimo apparato).

Ora tenere un partito chiuso ai tesserati non funziona: primo perché è una chiusura politica e secondo perché se uno ha i soldi per tesserare 1000 persone porta mille voti e si cammella il voto.

Fare primarie aperte, se non le pubblicizi, per le cariche intermedie, significa che puoi cammellare il voto perchè il voto di opinione non è abbastanza coinvolto e non ridimensiona il voto cammellato.

Queste regole vanno rottamate entrambe. NON funzionano.

Si fa che si decide un giorno dell’anno, ogni 4 anni (al netto di emergenze) in cui il PD vota tutti i suoi organi.

E lo si racconta al Paese che così chi vuole partecipa.

Si fa che si stabilisce un albo elettorale a cui ti puoi iscrivere anche prima di votare, questo albo è aperto a tutti, le persone devono essere contattabili e una commissione deve stabilire dei parametri di controllo, delle medie numeriche, si chiamano “KPI”, dei misuratori di valori: se un circolo raddoppia le tessere in fase di voto mentre la media Italia è del 30%, quel circolo viene commissariato. Io per esempio fossi Epifani mi sarei fatta fare un foglio xls con tutto il dato del tesseramento e avrei voluto un monitoraggio quotidiano. Non è complicato “controllare”. Se si vuol farlo.

Si fa che i soldi si controllano centralmente e si certifica ogni singolo soldino che entra e che esce.

Poi – ma soprattutto – si costruisce una classe dirigente che parla di politica e non di potere e fa solo due mandati, così non ha l’ansia da prestazione per non perdere poltrone e così la si smette di fare politica coi voti personali (che portano i singoli, ma fanno perdere il complessivo), ma la facciamo con le idee (che portano voti al complessivo e non ai singoli).

Storia di un nonno e di un femore.

Dunque le cose sono andate più o meno così.

Mio nonno ha 86 anni e fa poco sport di solito. Abita in una grande casa con mia madre, in provincia di Roma, ereditata dai genitori e costruita negli anni della guerra.

Ieri sera, dopo tante insistenze sul tono “devi muoverti un po’” oppure “scendi in giardino a respirare un po’ di aria pulita” alla fine è sceso con la sua seggiola elettrica che dal primo piano della casa coloniale lo porta di sotto – senza aspettare che mia madre o chi per lei – lo conducessero di sotto.

Passeggiando in giardino dove lui è il dominatore totalitario si è accorto che un gatto rosso stava cercando di fare amicizia in modo un po’ troppo esagitato con la gattina bianca dagli occhi gialli che è la sua prediletta e quindi si è messo a correre (così almeno narrano le cronache) per evitare il fattaccio. Ed è caduto.

Dopo un po’ in casa se ne sono accorti e lo hanno riportato di sopra di peso. Dopo un lavoro di convincimento lo hanno convinto a chiamare l’ambulanza (perché l’infermiera che a casa conoscono era partita per non ho capito quale regione del sud dove il marito è caduto da un’impalcatura di otto metri che a raccontarlo sembra un film veltroniano) e così è finito nell’ospedale cittadino. Lo ricordo: provincia di Roma. Gli diagnosticano una frattura composta e lo appoggiano su un lettino. Quando l’ho chiamato stava bene, era arzillo e raccontava che la dottoressa dai pantaloni rossi mi somigliava molto. All’ospedale posto per lui non c’è, me ne rendo conto solo questa mattina quando lo chiamo e mi dice che sta su un lettino in una stanza piena di computer e di armadietti di farmaci.

“Ma scusa che ti hanno detto?”

“Niente. Che non c’è posto.”

“Ah.” Dico io. Allora cerco su google il centralino dell’ospedale e chiamo. Mi risponde una signora gentile alla quale spiego tutto che inoltra la mia chiamata dove risponde un signore gentile che capisce subito di che nonnetto parlo.

Ammazza che efficienza penso.

“Guardi nun se preoccupi, abbiamo mandato fax in tutti gli ospedali e il CTO ci ha risposto poco fa.”

“Ah e che dicono?”

“Devo da mandargli la lista de analisi che javemo fatto e poi loro vedono se se o pijano.”

“Ah. Ok e quindi come facciamo a sapere se lo portate al CTO?”

“Se sentimo tra due orette, signò e je lo faccio sapere.”

Ora premesso che mio nonno non aveva nessuna voglia di muoversi da lì e ad un certo punto ha anche inscenato un momento “vittima” che suonava più o meno: “Lasciatemi morire qui” e che dimostrava che lo dovremo sopportare ancora a lungo, alla fine in serata mia madre mi ha dato la notizia che nonno rientrava a casa. L’unica telefonata che ho fatto, su imput di una collega (“stai attenta che i nonni con il femore rotto non li vuole nessuno e quindi se li sbolognano da un letto all’altro….) è stata al medico di base del nonno al quale ho chiesto se almeno poteva verificare che fosse vero che i posti non c’erano.

Ora nonno sta a casa come dovrebbe stare in ospedale con tutta una serie di cose da fare.

A parte gli scherzi, una lista di cose su cui riflettere:

1) è possibile che uno si rompa alle 19 del giorno x e che alle 13 del giorno x+1 ancora non si sappia dove portarlo?

2) se alla fine è stato rimandato a casa non si poteva gestire questa cosa dall’inizio? Ti porto al Pronto Soccorso, ti faccio la lastra, certifico che puoi tornare a casa e faccio in modo di darti tutto ciò che ti serve (se puoi andare a casa spero che ti ci abbiano mandato perché puoi….non perché non hanno posto)

3) è possibile che tra ospedali del Lazio le comunicazioni avvengano ancora via fax e che non esista un sistema integrato che dà in tempo reale i posti per tipologia di reparto e le esigenze per tipologia di necessità e che magari quel sistema informatico non si aggiorni in tempo reale “matchando” le due informazioni?

4) è possibile che se l’ospedale che eventualmente ti riceve di norma ti chieda delle analisi e tu non gli mandi quell’elenco di analisi che hai fatto già alla prima richiesta?

Insomma qualcuno ci sta mettendo mano alla Sanità del Lazio a parte favorirne lo smantellamento periferico? Qualcuno sta informatizzando le comunicazioni tra strutture per rendere più veloci gli interventi su pazienti? State scrivendo un protocollo da seguire in casi non gravissimi in cui si può compensare con l’assistenza domiciliare? A parte i nonni con il femore rotto qualcuno sta misurando i tempi di accesso alle cure diagnostiche o chirurgiche nella nostra regione? Io penso che questa sia la cosa principale su cui debba lavorare la regione e non perché pesa più del 70% del bilancio, ma perché è un elemento discriminante tra una Regione che funziona e una Regione che non funziona. Sono certa che la nuova giunta ci sta pensando. Ma tranquillizzatemi.

Una cosa bella.

Vi ho abituato ad essere sempre molto critica con il PD e so ogni angolo del partito (soprattutto romano) che cambierei. Conosco chi campa di politica, chi segue la corrente dei vincitori, chi alla fine, all’ultimo minuto dopo tante belle parole poi si allinea. Eppure in questi giorni leggo le bacheche di FB dei giovani nuovi presidenti di municipio (non tutti, ma molti), leggo l’entusiasmo della nuova giunta, i loro buongiorno, lo stile diverso di andare a piedi, in bici, con la propria macchina, le cose che si stanno sbrigando a fare con energia e dedizione. E scusatemi  ma voglio dirlo: mi piace. E noi, qui fuori dobbiamo aiutarli e premiare questa bellezza affinché non si deturpi mai e non divenga mai “uso” del potere, ma sempre e solo servizio per la città intesa come Bene Comune. Sono orgogliosa di tutti voi. Estella Marino Valerio Barletta Maurizio Veloccia Andrea Santoro Valeria Baglio Sabrina Alfonsi e tutti gli altri che sanno di essere inclusi in questo elenco, credetemi lunghissimo.

Roma, punto numero uno: semplificare. Tutto.

Se si prende la politica sul serio e non dal verso della poltrona, il governo di una città come Roma è roba da far tremare i polsi. Se fossi il sindaco o uno qualsiasi degli assessori la prima cosa a farmi paura sarebbe quella di non riuscire ad arrivare dappertutto. Cioè a tutti.

Il campo è avverso per le condizioni al contorno, ma la squadra è buona.

Se dovessi esprimere un desiderio da appiccicare alla visione della città chiedere soprattutto una cosa: semplificare la vita della città.

Avendo avuto la fortuna di vivere in tante città di ogni dimensione possibile (Torino, Treviso, Bergamo, Zurigo per dirne alcune ) conosco la differenza tra Roma e una città vivibile. Una città vivibile è una città dove gli atti elementari sono semplici.

A Roma non è semplice fare la raccolta differenziata. Si deve rendere semplice:

1)      Sapere con precisione e facilità dove buttare le cose

2)      Possibilmente avere meno cose da differenziare. Per me che da otto mesi sto cercando di seguire il concetto di “rifiuti 0” gli imballaggi alimentari sono un problema sovrumano e quando sei stanco ti arrendi. E se ci arrendiamo in 4 milioni Malagrotta scoppia e possiamo scordarci di fare a meno di una discarica.

A Roma non è semplice pagare le multe:

1)      Ti arriva la notifica a casa (se lavori) e poi devi andare alle Poste dove ti danno un foglio per andare dai vigili a ritirare una multa che poi devi andare a pagare alle poste. Per chi è informatizzato quella multa è sul sito del comune e può essere pagata on-line, ma rendiamolo semplice a tutti, non solo ai cittadini 2.0. Evitiamo il passaggio alle Poste.

A Roma non è semplice vivere Roma:

1)      Perché i musei hanno orari improbabili

2)      Perché il centro è il luogo dei turisti e ha smesso di pensarsi parte della città

A Roma non è semplice aprire un’attività imprenditoriale.

E a Roma non è semplice muoversi, non è semplice trovare un asilo, non è semplice fare una visita medica specialistica, non è semplice nei quartieri dormitorio uscire a fare una passeggiata e trovare un punto di luce, un punto “sociale”, un attrattore umano. Non è semplice vivere il fiume, non è semplice avere tempo libero se abiti lontano dal lavoro o se a abiti in luoghi dove non sai che fartene del tempo libero. Non è semplice essere disabili, essere anziani, essere bambini.

E si potrebbe continuare all’infinito fino a scrivere un programma politico intero e non è questa la sede. Insomma se dovessi chiedere a Marino e ai suoi assessori su cosa lavorare prioritariamente, se dovessi scegliere quale ingrediente primario mettere nella torta dei prossimi cinque anni per farla lievitare direi proprio questo: semplificare. Semplificare tutto come un’ossessione. Semplificare, semplificare, semplificare. Regalare tempo e semplicità ai romani per rendere la loro vita migliore. Ecco quello che, semplicemente, mi aspetto da un sindaco.

La destra romana che parla solo di gay.

Ho appena assistito ad un surreale dibattito su una rete locale. Voglio ringraziare Estella Marino che tentava tra le interruzioni e la demagogia di parlare di rifiuti e di asili nido mentre i due consiglieri eletti di Alemanno continuavano a parlare di gay e di transgender. Questa destra barbara romana è ossessionata dai gay, vede solo gay, parla solo di gay…siete voi che siete fissati: noi abbiamo il giusto equilibrio. Giusto, appunto. I romani hanno bisogno di parlare di Roma, non SOLO di gay come fate voi che non avete altri argomenti. Hanno bisogno di sapere che con i soldi che vi siete spesi in consulenze avremmo aperto asili nido anche a Milano perché avanzavano. Hanno bisogno di sapere che con i soldi che avete sprecato avremmo tappato buche, acceso lampioni, costruito ciclabili e aiutato aziende. Grazie ad Estella che ha liquidato il tema dicendo che le coppie di fatto e le famiglie di gay con figli a Roma hanno gli stessi diritti degli altri tentando di andare oltre. Non si cavalca la demagogia fascista, si spiega alla città e si parla di cose pratiche.

Mandiamo a casa questi barbari.

Roma: quel silenzio assordante dopo la rabbia, panorama politico post-atomico.

Un romano su due non ha votato. Non ha votato per il suo sindaco, per la figura istituzionale che – in teoria – dovrebbe essere il suo rappresentante più prossimo, più vicino alla vita quotidiana. Se pensiamo ad Argan, a Petroselli, ma persino al primo Rutelli o a Veltroni sembra una voragine questa mancanza. Un’assenza che racconta il distacco della città, la sua indolenza, quel modo felino di arrangiarsi che abbiamo noi romani come se la vita fosse una strada piena di buche mandate a memoria da evitare col sorriso e un’imprecazione da far ridere tutti.

Quel modo di essere romani che è Totti legato alla maglia per tutta la vita e che ci ha messo quella vita per intero a capire che bisogna rispettare le regole perché non si reagisce quando si pigliano i calci e gli insulti altrimenti si passa dalla parte del torto.

Quel modo che abbiamo tutti che attraversiamo la strada appena si può che non c’è tempo di cercare le strisce anche perché quasi sempre non si trovano mai, cancellate dal sole e dall’usura e mai troppo in tempo ridisegnate sull’asfalto. Quel modo di essere un po’ arroganti, un po’ prepotenti un po’ “nun me guardà, oggi nun’è giornata”.

E’ difficile raccontare Roma. E’ diventata un millefoglie di umanità complesse, di attitudini border-line tra il vivere e il sopravvivere, di file di migranti che dormono lungo tutta la parete della Stazione Termini che ti manca il fiato quando ci passi e di strade collassate dove sfondare i cerchi delle macchine e dei motorini e di strade buie e di pianerottoli dove mandarsi a fanculo per una perdita d’acqua e di avvocati dei Parioli con la Smart alle prese coi divorzi, anche del proprio volendo e di feste sui terrazzi noiose a dirsi ciao come stai quanto tempo che la città è enorme e piccola allo stesso tempo. E non bastano queste 3 pennellate, non basta mai nulla per descrivere Roma. Provi ad afferrarla fuori dallo Stadio e ti sfugge: ci sono tutti. Così in Chiesa così nei locali. Si prende gioco di te. E a proposito di gioco in ogni quartiere si aprono tunnel, come tane di talpe, buchi con vetrine blindate dove pezzi di città spariscono per riapparire altrove. Violenta, lenta, aggressiva e piaciona. Niente, tanto non basta. Chiunque ci provi a raccontarla senza scadere in un cliché limitato e retorico ci fa la figura dello scemo. Dovresti prendere una macchina fotografica e stare zitto. E usarla ogni giorno a tutte le ore e tutto l’anno. Poi forse riusciresti a fare vedere qualcosa di Roma senza sembrare uno scemo.

A Roma c’è un pezzo che alle ultime politiche ha votato Grillo. Un botto di gente. E questa volta invece non è andata a votare. Un silenzio più assordante delle grida di rabbia di febbraio. Un silenzio che racconta il desiderio di una politica che sia cambiamento ma non distruzione. Una lezione per tutti. L’astinenza è il grido della democrazia, molto più del voto di protesta a liste appena nate, ancora incognite nella fattibilità dei loro stessi intenti. Ma quel silenzio, dopo soli 3 mesi, è un segno evidente di intelligenza. Ci sono due cose dentro, al di là di tutto.

Una che punisce tutti. E quindi, al contrario di ciò che dice Epifani, punisce il governo in carica, non lo premia e approva manco per niente. Facciamo che i dirigenti PD restano in silenzio fino alle 15:01 del 10 giugno. Dai facciamo questo gioco. Per favore.

L’altra è la punizione per chi aveva le carte per isolare Berlusconi e questa destra sguaiata e invece si è astenuto da quel ruolo, pestando i piedi e rifiutando il ruolo di attore di una prova inedita. Il M5S avrebbe potuto governare con il PD, sfidare il PD e guidare alcuni processi. Se avesse avuto la maturità per farlo. Non l’ha avuta.

Non si fa. Direbbe Pasquino: se te ce mando, fai qualcosa.

E così quel silenzio è una grande occasione per la politica del dopo. Quella del the day after quella a cui toccherà ripartire dalle macerie lasciate da un grande grido seguito da un grande silenzio. Sembra il panorama postatomico di un cartone animato giapponese questo risultato emerso dalle urne.

C’è un pezzo di Roma che parla a nome del resto del Paese che dice: forte cambiamento, ma non dice distruzione. Per favore decodificare il messaggio. Per favore provvedere in fretta.

Nel frattempo per favore salvare Roma. Stop.

Liberare Roma.

“Il mondo dell’associazionismo cattolico e più in generale tutti coloro che fanno propri i valori della dottrina sociale della chiesa si schiereranno contro chiunque sostenga forme di matrimonio contro il diritto naturale, l’eutanasia, la liberalizzazione delle droghe e l’estremismo settario di sinistra. Impossibile dialogare con Marino come sindaco di Roma”. Lo afferma in una nota Francesco Smedile, già consigliere UDC di Roma Capitale e presidente della Commissione Riforme Istituzionali per Roma Capitale.

Ecco, no, per capirci.

Ricordo a tutti che la sfida che ci aspetta a Roma in questo momento difficile è proprio una sfida di liberazione. Ci sono fascismi striscianti che sopravvivono nel tessuto delle democrazie fragili, che si abbattono sulle diversità, che si eleggono a portatori del pensiero unico. Roma è nefastamente prigioniera di una cultura primitiva che con il cattolicesimo quello vero NON c’entra nulla. Ignazio Marino è un cattolico “adulto” che separa il Vangelo della Costituzione. E’ bene ricordare oggi che anche quella è Liberazione.

E come scrive Estella Marino (che non è parente di Ignazio ed è candidata al consiglio comunale ed è la persona per cui spenderò i prossimi mesi perché è dalle persone come Estella che dobbiamo ripartire): “Buon 25 aprile… di liberazione… per ricordarci da dove veniamo e come e’ stato difficile costruire la democrazia in un paese che ciclicamente si abbandona alla via piu’ semplice e populista.”

Molto sinteticamente.

1) Mi dimetto da ogni carica che ricopro nel PD (e la mia tessera è a disposizione del segretario Bersani)

2) L’accusa di razzismo e di istigazione all’odio razziale è infamante e mi difenderò con serenità nelle sedi opportune anche querelando singolarmente alcune persone.

3) Il risultato delle primarie di Roma è stato probabilmente “salvato” dal fatto che in molti hanno denunciato non “stranieri che votavano” ma “numeri anomali” che riguardavano stranieri come altre categorie. Così come molti per giorni denunciavano lo sperpero di denaro in manifesti abusivi, spesso attaccati da migranti, probabilmente in nero. Chi vuole vedere razzismo nella statistica preferisce colpire le cose che non si vogliono sentire piuttosto che domandarsi cosa accade spesso durante le primarie o durante le elezioni. Anche questo verrà circonstanziato nelle sedi opportune.
4) Quando Veltroni parlò di cinesi al voto a Napoli nessuno gli diede del razzista. Domandatevi perché la parola ROM vi fa così male. A me non lo fa, per questo la uso. E’ una parola bella, che racchiude la libertà di un popolo a cui dovremmo dedicare tempo e dedizione e non ipocrisia pelosa e interesse fittizio. Mi permetto di aggiungere che il tempo e la dedizione vanno messi nel costruire per la comunità ROM una vera integrazione e non “condizioni migliori” nei campi. La comunità che la politica ha il compito di costruire in questo Paese non si deve fondare sulla separazione dei corpi dagli occhi. Riflettiamoci. Tutti. Spero il linciaggio abbia lavato qualche coscienza. La mia è pulita.
5) Auguro ad Ignazio Marino di vincere queste elezioni, Roma non si merita questo degrado culturale e mi auguro che Ignazio sappia costruire una città dove trovino cittadinanza tutti: una città dove la capacità di scegliere sia sempre più consapevole. Ne ha bisogno Roma, ne ha bisogno l’Italia.
6) Mri famiglia ma dicheri rado