Diario di bordo di un tutore e di un migrante non accompagnato #4

Non ho mai visto una faccia cambiare tempo così rapidamente, come il cielo di un paese del Nord Europa. Ypsilon porta con se il sole dei suoi 16 anni, la stessa allegria e vanità dei suoi coetanei europei quando mi dice che tifa Barcellona e che la giacca che indossa gliel’ha prestata il suo compagno di stanza eritreo. E porta con se delle nuvole grigie, cariche di tempesta, prive di pietà che sono di un’altra età, di un ‘altra era geologica emotiva, quando commenta il parcheggiatore abusivo dicendo che “lavoro anche lontano, no chiedere soldi, perché non parte a cercare lavoro come io?” oppure quando mima il movimento della barca nelle onde che dalla Libia lo ha portato in Italia. Socchiude gli occhi per ritrarsi timido, si tormenta un ricciolo quando lo tartasso di domande. Spalanca gli occhi oltre le mie spalle quando passiamo molto tempo in silenzio perché entrambi dobbiamo cercare le parole io per farmi capire lui per farmi capire. Non ho mai visto un volto così è come se parlasse, come se ogni segno, ogni espressione fosse la Bibbia intera, l’Odissea e l’Iliade e tutti i libri di formazione che ho letto. E’ incredibile quante parole e quante stagioni e quanta metereologia ci siano sul volto di un sedicenne.

Diario di bordo di un tutore e di un minore migrante non accompagnato #1

Ho voglia di raccontarvi questa storia (e cercherò di farlo d’ora in poi), questa storia di fare il tutore di minori stranieri non accompagnati, questa cosa con il nome lunghissimo che nelle slide del corso veniva abbreviata così: MSNA.

Questa cosa è cominciata in autunno insieme a quasi (credo) altre 900 persone in tutto il Lazio. Due cose lampo: il corso è stato bello, forse per chi era del mestiere (avvocati, psicologi, assistenti sociali) ridondante, per noi non addetti alla materia un bel colpo nello stomaco. Molti di voi quando sentono la parola minore pensano subito ad un bimbetto, invece il 95% dei ragazzi che arrivano hanno tra i 16 e i 18 anni e sono maschi. Sono quelli che riescono a fare il viaggio da soli. Quelli che sopravvivono. Le ragazze sono pochissime (anche se partono, non arrivano, fanno un altro giro, indovinate…) anche se oggi 3 delle persone che hanno giurato con me avevano 3 ragazze somale ed è stato considerato il miracolo del giorno.

Questa storia è cominciata in autunno dicevo e non ho mai ringraziato il garante dell’infanzia del Lazio Jacopo Marzetti che, almeno a noi del primo corso, non ha fatto mai mancare la propria presenza. Immaginatevi io che rompo sempre le palle che la prima volta che l’ho visto spuntare ho subito pensato “ecco sarà il solito che viene a fare la passerella” poi ciao. Invece no. Sempre presente anche quando non era necessario, uno davvero curioso di capire chi diavolo erano questi pazzi che nel pieno della criminalizzazione delle ONG e della gara a chi era più razzista degli ultimi 6 mesi si catapultavano in viale giulio cesare di venerdì pomeriggio a farsi un corso di 4 ore.

Un corso in cui non ci hanno insegnato a cambiare pannolini, ma cosa sia la sindrome post traumatica da stress, come si determina l’età di un essere umano senza documenti e i fondamenti dell’ascolto. E cosa accade in Libia. Cosa fare se il minore che ti affidano commette un reato perchè magari finisce nel giro sbagliato in un Paese che non ha ancora trovato la cifra dell’acccoglienza. Insomma cose così che tu tornavi a casa pensando: ma a me chi me lo fa fare o pensando che quel problema era così grosso che tu ti sentivi la minuscolaggine universale.

In questi giorni sono iniziate le prime assegnazioni.

I nuovi tutori avranno affidati solo i minori arrivati dopo il 5 marzo. Quelli arrivati prima seguono la legge che c’era prima, niente tutore.

Un po’ di confusione iniziale. Il casellario giudiziale serve o no come dice la nomina? E la marca da bollo? Ho scoperto che esiste un ufficio dedicato al Casellario Giudiziario. Arrivi e ti chiedono: avvocato? Ovviamente non vogliono sapere cosa sei. Solo se sei avvocato. Il resto del mondo passa per il metal detector (spero anche gli avvocati, ma in altro modo, non lo so, voi lo sapete?). Prendi il numeretto. No, non serve, hai prenotato la visura on line, per fare meno fila, ma la fila più lunga è di quelli che hanno prenotato on line. Allora fai la fila e siccome fai il manager scassaminchia ti guardi intorno, noti questa tappezzeria da ufficio pubblico, tutti questi fogli A4 appesi ovunque, ogni tanto con lo scotch che demorde e fa un’orecchietta che tu avresti voglia di strappare tutto, comprare una bacheca, regalargli delle puntine a tutti questi uffici pubblici per evitare questa cosa dei post-it formato A4.

Non chiedete informazioni allo sportello.

Lo sapevate? Ora potete prenotare on line.

Per le marche da bollo dall’altro lato.

Una specie di tracciato che unisce emotivamente tutti gli uffici pubblici d’Italia, fatto di fogli A4 che danno avvisi, divieti, consigli. Ti chiedi come mai mi hanno fatto venire qui se: ho lo spid (identità digitale) e siamo nel 2018. Ma non potevano mandarmelo via mail? O mandarlo direttamente al tribunale? O meglio il tribunale non poteva avere un database e prima di farmi fare il giuramento sapere che non avevo carichi pendenti? Io devo dire al Tribunale una cosa che un ufficio di giustizia sa meglio di me. Cioè devo dire a loro una cosa che loro sanno già. Intanto calcolavo quanto diavolo stavo inquinando ad avere fatto tutto quel giro per Roma (la burocrazia inquina, lo sapete?)

E’ il mio turno. Scriva qui il numero della sua pratica, con parsimonia (nel senso usi poco spazio che poi sto bigliettino lo uso per un’altra pratica). Scrivo. Torna. La nomina? Eccola. E agito ingenuamente il cellulare. Eccola. Non va bene. Come non va bene. Ho il documento. Non lo sapete che sono stata nominata. No. Posso mandarle una mail che la stampa? Non abbiamo mail, vada al bar. Al bar? Sì, al bar. Al bar con 1,20€ ti stampano quello che vuoi (credo 0,60 a foglio…al bar che sta dentro uno dei palazzi di giustizia si sono inventati un business più redditizio del caffè, dei geni!). Torniamo indietro, il tipo senza mail (come si fa a non avere una mail in un ufficio pubblico nel 2018) non c’è più. Rifaccio la fila. Riscrivo il numeretto sul foglietto. Nel mentre una signora capisce che io e un’altra dietro a me siamo aspiranti tutori e ci dice che non solo la marca da bollo non serve, ma non serve nemmeno più il casellario. Comunicazione di ieri. Basta l’autocertificazione che faremo lì. Ok, grazie, ce ne andiamo, vuoi un passaggio sei a piedi? e mi porto via ICS (per voi X) che nella vita fa l’assistente sociale e che mi racconta cose agghiaccianti sugli affidi e quanto spesso gli adulti restituiscono i bambini, di un bimbo di 1 anno che non per burocrazia non viene dato in adozione e che loro ogni settimana vanno dove devono andare e rimettono la sua cartellina in cima. Che prima di dichiarare lo stato di abbandono passano 90 giorni e 90 giorni sono un’eternità per un bimbo ma noi ci preoccuvamo tutti dell’utero in affitto fino ad un anno fa adesso se vedete non gliene frega più un cazzo a nessuno e di sicuro a nessuno frega nulla di questi bambini di cui sono pieni i centri perchè alcuni sono troppo grandi, alcuni sono neri, alcuni storti, alcuni un ragazzo gay se li voleva adottare dopo anni di continuità affettiva e non glieli hanno dati perchè era gay. Succede anche questo.

Quindi da Prati andiamo a Via Giulia dove c’è il tribunale dei minori (come se fosse una passeggiata scorrazzare per Roma di venerdì mattina, cercando parcheggio due volte e non mi dite che potevo andare coi mezzi che altrimenti vi dò una capata). Mentre guido e parcheggio nel parcheggio sotterraneo (e penso a Guzzanti che imita Rutelli: Cittadino! Ti ho fatto il parcheggio sotto casa!) penso porca miseria, ma quante cose ancora da fare in questo Paese, a cosa serve tutta questa burocrazia, tutti questi fogli A4 appesi negli uffici pubblici, tutte queste file, tutte queste formalità e poi la marca da bollo….santoddio a cosa serve la marca da bollo! Altro che digitalizzazione siamo nel medioevo.

Arriviamo. Saliamo. Aspettiamo nella saletta del presidente. Giuriamo. Apriamo il fascicolo. Ognuno di noi sfoglia. Legge. Fermatevi un attimo che vi ho fatto correre fino a qui. Poche righe nel primo foglio. Meno di dieci righe.

Ypsilon (per voi d’ora in poi sarà Ypsilon) ha 17 anni. Viene dal Marocco. E’ in Italia da 6 mesi. E’ arrivato a Roma da poco, dalla Sicilia. Ha passato 3 mesi in Libia dove gli hanno rotto il naso, lo hanno pestato e rubato i documenti. Non aveva soldi per il viaggio, non so ancora come abbia pagato il viaggio. Glielo chiederò. Suo padre fa il contadino dice la scheda, sua madre casalinga, chissà quante cose può insegnarmi Ypsilon su come si coltiva la terra e chi glielo dice che c’è un pezzetto di me radicalchic del cazzo che vorrebbe coltivare la terra e fare il vino e l’olio, quello mi sputa se glielo dico. Oppure mi dice che dipende dalla terra e da cosa tira fuori. Domani vado a conoscerlo e vediamo cosa imparo (di sicuro a ridimensionare molte cose)

Stare da una parte o della dissidenza.

in Italia dovremmo rivedere cosa significa stare da una parte. Per la maggior parte di noi “stare da una parte” e’ difendere quella parte anche davanti all’evidenza dell’errore.
Criticare anche una sola volta e’ tradimento, significa varcare la soglia della “casa”, uscire per il bosco oscuro, inseguiti dalla sassaiola,
Per questo la maggior parte preferisce “restare dalla parte” sempre (ci sono anche quelli che criticano quando hanno gia’ “un’altra parte”, eh).
Quindi si perde la capacita’ di criticare, si ha paura di farlo, quella buona pratica che e’ discutere, criticare per cambiare. La critica viene vista come distruzione: a sinistra e’ il tipico approccio comunista sovietico. Il critico e’ oppositore. il dissidente. Va distrutto con qualsiasi mezzo. Azzerato. La sua distruzione diventa piu’ importante del cambiamento, diventa meta finale, non parte di una visione. Per cui si perde di vista la visione. Resta solo il nemico.
 
Mi piace pensare (in coppia, in azienda, in politica) che stare da una parte significa sollevare i problemi per cambiare. Fare meglio. Crescere. E sopratutto non essere spazzati via: da un’amante, da un competitor, da un movimento populista.
La natura del nostro Paese secondo me e’ racchiusa in questa mancata maturita’ che e’ personale e collettiva insieme. Dobbiamo trovare il modo di evolverci per sopravvivere.

Il Cielo sopra di noi (il senso dei social o degli incontri)

Se penso a quello che mi piace di più nella vita riduco tutto all’umanità.

Adoro ascoltare le persone le loro storie. Uso i social per seguire dibattiti anche completamente idioti dove magari non intervengo nemmeno che mi consentono di fare per un attimo quello che fanno Damiel e Cassiel nel film “Il Cielo sopra Berlino”.

Ecco se qualcuno mi chiedesse il senso dei social network per me gli direi che è questo con tutta la confusione e l’eccessiva velocità che questo, anche, comporta.

Ma questa è la stessa cosa, in fondo, che è racchiusa negli incontri. Ieri un pensionato di una raffineria mi ha raccontato la notte, la chiusura dei cancelli, la percezione delle proprie dimensioni nelle notti di lavoro (di notte diventavamo improvvisamente più piccoli), la trasformazione delle relazioni per cui – mi ha detto proprio così – quelli che di giorno ti sembrano cattivi di notte diventano dei semibuoni . Era come leggere un libro di Massimiliano Santarossa, uguale.

Gli ho detto: sei un filosofo quindi.

E mi ha detto no, quasi: con i turni di notte ho pagato a mia figlia l’università e lei, sì, lei è filosofa.

Se non avessimo tutto questo tra noi essere umani cosa avremmo? Come si fa ad alzare muri, a non avere voglia di leggere gli altri e le loro storie? Esiste forse una forma di analfabetismo relazionale? E come si colma?

A te che riposi davanti al mare.

Quel muro lì davanti mi dà un pò fastidio. Lo avrebbe dato anche a te anche perché ti separa dal mare, un pò come accadeva al liceo.

Che gli altri non ci pensano, non possono sapere, perché il mare non ce l’hanno avuto fuori dalla porta del liceo e perciò una parete non gli è mai sembrata qualcosa che li separava dal mare. A noi sì, i muri di scuola ci separavano dal mare direttamente e i muri ci davano fastidio. Fuori c’era l’immediata libertà, l’infinito. Quanto ti piaceva Leopardi. Quanto saresti arrabbiata oggi con tutti quei muri che tentano di fermare la storia.

E’ successa una cosa buffa prima che uscissimo di casa per venirti a trovare. E’ successo che mio nonno mentre eravamo sulla porta e stavamo andando via si è seduto al pianoforte e ha suonato. Non lo avevo mai sentito suonare. Stava gobbo e suonava. Ha sfoderato dolcezza come un’esplosione improvvisa e tu che lo conosci sai che significa. E’ stato come quando ti abbiamo seppellito che immediatamente dopo averti appoggiato alla terra si è messo a piovere, si è aperto un pezzo di cielo sul mare ed è apparso un arcobaleno come se ci volesse consolare per forza. Come se ci stessi dicendo: “Ahò ma che state a fà? State a piagne per me? Ma che siete scemi?” E la tua risata a seguire e quel gesto con cui ti schermivi, la testa mezza girata dall’altra parte come chi se ne sta per andare.

Insomma è la seconda volta che succede una cosa magica, senza senso razionale e allora avevo ragione che eri un pò una maga oltre che una brava dottoressa della legge.

Tuo fratello si fa la pasta al tonno dice. Come tutti i maschi abbiamo riso noi. E’ cresciuto, non in altezza certo, era già un cristone tre anni fa. Ma ha meno capelli, la ferita che gli attraversa il cranio sembra una medaglia di altri tempi, ha qualche capello bianco che tu non gli hai visto spuntare, è un pò stempiato, non ha nemmeno 35 anni e parla di dignità dell’invecchiamento, va a lavorare passando per strade che lo predispongono, in borsa aveva un libro della tua biblioteca che racconta come un tizio intelligente decide di diventare un tizio stupido ed è proprio un libro da te. Insomma è come se avesse preso cose di te per tenerle vicino, una sorta di sensibilità fraterna che si è moltiplicata nel ricordo, nei tuoi libri e nel dolore. Un Antigone al maschile del XXI secolo (questa l’avresti adorata, confessalo).

Non sono riuscita a non piangere ogni volta che si metteva di profilo era come vederti comparire nei suoi connotati e lui mi ha detto ma come mi sono messo il mio sorriso più bello per incontrarti. E poi abbiamo riso concordando che avresti detestato Renzi e io lo so che avremmo litigato su questo, che avresti compreso alcune cose ma mai, mai ti sarebbe piaciuto: troppo privo di malinconia, troppo veloce per la tua meticolosa dedizione.

Le parole sono importanti per esempio e se passasse questa legge, che tu avresti criticato sul piano del diritto, mi diresti che non posso andare da lei e dirle: vuoi sposarmi? Perche’ questa frase anche se passa questa legge non la potrò dire e tu la pensi come lei. Non ti basterebbe la sostanza, vorresti anche la formalità da bravo avvocato. E litigheremmo sull’aspetto politico di non perdere questa occasione, non lo coglieresti faresti no no no con la testa, ma mi vorresti bene lo stesso. Lo so. Tanto di notte ti darei ragione e ti direi che pero’ dobbiamo fare un passo avanti e anche tu di notte mi daresti ragione.

Ho pianto. Ho pianto perché mi manca la tua intelligenza, anche quando sembravi un’idiota. E mi manca anche quella tua gigantesca fragilità che a volte generava fughe e arresti, le cose che io non comprendevo perché non esisteva scappare, non esisteva fermarsi. E mi facevi incazzare, disperdere pazienza, detestarti. Che idiota che ero che scambiavo la prepotenza per coraggio e lo stare fermi per ozio.

Mi manca quel viaggio di ritorno da Zurigo in cui guidavo la Panda Setteecinquanta e ti dettavo pezzi di libro che parlavano di te e tu li scrivevi sul cellulare e me li mandavi per sms, una specie di circuito chiuso letterario racchiuso tra alpi, laghi e lunghissimi trafori che ti inquietavano. Quando finisce questo Gottardo, quando finisce.

Amica mia. Mi manchi. Lei ti sarebbe piaciuta tanto e la stanza che abbiamo a Napoli sarebbe stata perfetta per venirci ogni tanto a studiare. Hai visto che bel gol ha fatto Florenzi?

La mia generazione non ha fatto la guerra*

La mia generazione non ha fatto la guerra. L’ha sentita raccontare da chi l’aveva combattuta o da chi aveva atteso invano i ritorni o aveva conosciuto uno zio o un padre da una foto in bianco nero, in divisa e chi è morto in guerra ha continuato a vivere nella narrazione epica di chi era sopravvissuto, consegnandosi all’immortalità nell’immaginario del proprio microcosmo familiare.

La mia generazione vive in tempo di pace, un tempo in cui la necessità non genera sentimenti collettivi come accade in tempo di guerra ed è difficilissimo per noi scardinare la solitudine, condizione con cui combattiamo la nostra personale guerra, una guerra che non può essere raccontata perché è spesso troppo intima, troppo prigioniera della discrezione, troppo individuale.

Questo è un tempo che frammenta le individualità e toglie dignità ai dolori, gliela toglie perché sono dolori tutti diversi, incondivisibili.

Per condividerne la forza vanno raccontati e spiegati. In tempo di guerra non si doveva spiegare nulla. Quello era un tempo uguale per tutti: bastava guardarsi per capire di avere fame.

Le guerre che hanno segnato la vita dei nostri nonni e dei nostri genitori che di quella guerra erano figli diretti, erano eventi la cui narrazione è stata corale, condivisa, innegabile. Il dolore della guerra, l’attesa, il lutto, la decimazione, la povertà, i bombardamenti erano il vissuto di tutti. Non c’era bisogno di dirlo. Era, ed era per tutti.

I nostri dolori non sono confrontabili con i dolori del novecento. Con l’olocausto. Con le campagne di Grecia e di Albania. Con chi non è tornato dalla Russia. Noi siamo la generazione che, in apparenza, non ha nulla da raccontare e ha tutto da ascoltare. Insieme all’incomparabilità del dolore viviamo un tempo in cui all’apparenza ci è concesso di scegliere infinite volte ed in cui ci sono infinite possibilità. Non esistono destini di classe. Non esistono destini di genere. Esiste tutto e il contrario di tutto e noi possiamo essere tutto, possiamo avere tutto. Quella possibilità diventa una forma di dovere: dovere approfittare di tutte le possibilità e di tutto ciò che sembra possiamo ottenere. Questo livello sempre più infinito di possibilità e desideri diventa il pozzo dell’incontentabilità del nostro tempo.

Invece bisogna ragionare sulla guerra della nostra generazione, sulla guerra che da intima può divenire collettiva, ritrovando le similitudini tra le solitudini, riconoscendo che la precarietà è il canone del nostro tempo in tutte le sue sfaccettature, non necessariamente tutte negative. Quello che qualcuno chiama il mondo liquido è esattamente il nostro ambiente, quello del nostro tempo, come se da animali di terra che abitavano il novecento, fossimo diventati animali d’acqua per sopravvivere nel nuovo millennio. E’ necessario fare emergere il linguaggio collettivo, esiste, anche se ancora sommerso. Esiste un racconto corale della nostra generazione, si comincia a “sentire”.

*Riflessioni sul finire del terzo romanzo.

Storia di un nonno e di un femore.

Dunque le cose sono andate più o meno così.

Mio nonno ha 86 anni e fa poco sport di solito. Abita in una grande casa con mia madre, in provincia di Roma, ereditata dai genitori e costruita negli anni della guerra.

Ieri sera, dopo tante insistenze sul tono “devi muoverti un po’” oppure “scendi in giardino a respirare un po’ di aria pulita” alla fine è sceso con la sua seggiola elettrica che dal primo piano della casa coloniale lo porta di sotto – senza aspettare che mia madre o chi per lei – lo conducessero di sotto.

Passeggiando in giardino dove lui è il dominatore totalitario si è accorto che un gatto rosso stava cercando di fare amicizia in modo un po’ troppo esagitato con la gattina bianca dagli occhi gialli che è la sua prediletta e quindi si è messo a correre (così almeno narrano le cronache) per evitare il fattaccio. Ed è caduto.

Dopo un po’ in casa se ne sono accorti e lo hanno riportato di sopra di peso. Dopo un lavoro di convincimento lo hanno convinto a chiamare l’ambulanza (perché l’infermiera che a casa conoscono era partita per non ho capito quale regione del sud dove il marito è caduto da un’impalcatura di otto metri che a raccontarlo sembra un film veltroniano) e così è finito nell’ospedale cittadino. Lo ricordo: provincia di Roma. Gli diagnosticano una frattura composta e lo appoggiano su un lettino. Quando l’ho chiamato stava bene, era arzillo e raccontava che la dottoressa dai pantaloni rossi mi somigliava molto. All’ospedale posto per lui non c’è, me ne rendo conto solo questa mattina quando lo chiamo e mi dice che sta su un lettino in una stanza piena di computer e di armadietti di farmaci.

“Ma scusa che ti hanno detto?”

“Niente. Che non c’è posto.”

“Ah.” Dico io. Allora cerco su google il centralino dell’ospedale e chiamo. Mi risponde una signora gentile alla quale spiego tutto che inoltra la mia chiamata dove risponde un signore gentile che capisce subito di che nonnetto parlo.

Ammazza che efficienza penso.

“Guardi nun se preoccupi, abbiamo mandato fax in tutti gli ospedali e il CTO ci ha risposto poco fa.”

“Ah e che dicono?”

“Devo da mandargli la lista de analisi che javemo fatto e poi loro vedono se se o pijano.”

“Ah. Ok e quindi come facciamo a sapere se lo portate al CTO?”

“Se sentimo tra due orette, signò e je lo faccio sapere.”

Ora premesso che mio nonno non aveva nessuna voglia di muoversi da lì e ad un certo punto ha anche inscenato un momento “vittima” che suonava più o meno: “Lasciatemi morire qui” e che dimostrava che lo dovremo sopportare ancora a lungo, alla fine in serata mia madre mi ha dato la notizia che nonno rientrava a casa. L’unica telefonata che ho fatto, su imput di una collega (“stai attenta che i nonni con il femore rotto non li vuole nessuno e quindi se li sbolognano da un letto all’altro….) è stata al medico di base del nonno al quale ho chiesto se almeno poteva verificare che fosse vero che i posti non c’erano.

Ora nonno sta a casa come dovrebbe stare in ospedale con tutta una serie di cose da fare.

A parte gli scherzi, una lista di cose su cui riflettere:

1) è possibile che uno si rompa alle 19 del giorno x e che alle 13 del giorno x+1 ancora non si sappia dove portarlo?

2) se alla fine è stato rimandato a casa non si poteva gestire questa cosa dall’inizio? Ti porto al Pronto Soccorso, ti faccio la lastra, certifico che puoi tornare a casa e faccio in modo di darti tutto ciò che ti serve (se puoi andare a casa spero che ti ci abbiano mandato perché puoi….non perché non hanno posto)

3) è possibile che tra ospedali del Lazio le comunicazioni avvengano ancora via fax e che non esista un sistema integrato che dà in tempo reale i posti per tipologia di reparto e le esigenze per tipologia di necessità e che magari quel sistema informatico non si aggiorni in tempo reale “matchando” le due informazioni?

4) è possibile che se l’ospedale che eventualmente ti riceve di norma ti chieda delle analisi e tu non gli mandi quell’elenco di analisi che hai fatto già alla prima richiesta?

Insomma qualcuno ci sta mettendo mano alla Sanità del Lazio a parte favorirne lo smantellamento periferico? Qualcuno sta informatizzando le comunicazioni tra strutture per rendere più veloci gli interventi su pazienti? State scrivendo un protocollo da seguire in casi non gravissimi in cui si può compensare con l’assistenza domiciliare? A parte i nonni con il femore rotto qualcuno sta misurando i tempi di accesso alle cure diagnostiche o chirurgiche nella nostra regione? Io penso che questa sia la cosa principale su cui debba lavorare la regione e non perché pesa più del 70% del bilancio, ma perché è un elemento discriminante tra una Regione che funziona e una Regione che non funziona. Sono certa che la nuova giunta ci sta pensando. Ma tranquillizzatemi.

Ho visto di nuovo le lucciole.

Ho visto di nuovo le lucciole ed erano centinaia, lungo una strada bianca di confine tra le Marche e l’Umbria. Sopra questo mare di lucciole poi c’era il cielo segnato dalla via Lattea. Non le vedevo da una vita, quasi due.

Ho visto come saranno adulti i miei nipotini e come sto invecchiando. Ho visto le colline trasformarsi in montagne e poi tornare dopo due gallerie.

Sono settimane strane, in cui vorrei dire tantissime cose. Sulla sentenza Cucchi, ma lo avevo già detto qui – nel 2009 – con le parole di Erri De Luca, subito. Sul presidenzialismo o semipresidenzialismo non mi pronuncio. Bisogna avere in testa una riforma complessiva non una soluzione da juke-box. Non ce ne facciamo nulla di un presidente forte in un Paese che gronda burocrazia o che non ritorna al maggioritario per togliere il sistema delle preferenze. Preferisco il maggioritario persino al comune, per evitare le gare a chi ce l’ha più lungo per chiedere poi il posto di maggior potere, di maggior stipendio, di maggior prestigio come se la politica fosse una competizione militare e non un servizio civile (e oggi che la candidata più votata del centro-sinistra a Roma è la candidata che ho votato anche io e che ho contribuito a convincere, posso dirlo senza passare per rosicona). Vorrei non dover sapere che alle 19 a Roma ha votato solo il 35% degli aventi diritto, è come una pugnalata dritta nel cuore. Vorrei non avere sentito Eugenio Scalfari dire quanto è brava e figa la sua generazione e quanto sono cretini i giovani (lo ha detto alla presentazione del libro di Veltroni nelle cui prime file c’era il gotha della politica romana e sul palco solo una donna e nessun giovane) e poi sentirgli dire che nel 1946 votò per la monarchia per paura che con la repubblica si finisse nelle mani della Chiesa.

Vorrei non assistere allo sfascio del M5S così in fretta. Lo dico io che a Grillo non ho mai creduto, nemmeno per un istante. Lo dico perché se il M5S si sfascia così in fretta il PD potrebbe smettere di andare nella direzione giusta troppo in fretta o non cominciare nemmeno a farlo.

Vorrei un sacco di cose in queste settimane e me ne sto come mi accade spesso a guardare. Vorrei che invece di calendarizzare la legge contro l’omofobia, calendarizzassimo la discussione su “Unioni Civili o Matrimonio” e i termini del dibattito fossero quelli. Non ho l’obbligo di fare comunicati stampa su tutto ciò che accade, almeno per ora. Quindi non chiedetemi di dire sempre la mia su tutto (lo dico ai 2, 3 lettori del mio blog che mi sollecitano ogni tanto), lasciate che contribuisca un po’ – in tutto questo frastuono post-elettorale – al sano silenzio di chi sta anche un po’ a guardare continuando a fare il proprio dovere al lavoro come il 99% degli italiani che hanno un lavoro. Nella mia vita da quando c’è il governo non è ancora cambiato nulla. Penso che dovremmo misurare su questo i prossimi mesi. Cosa cambia nelle nostre vite in termini di qualità della vita, di accesso ai servizi, di mobilità e soprattutto di possibilità. Quando vedrò cambiamenti potrò dire qualcosa di consistente, a meno di opinioni che non risparmierò sulla direzione che secondo me è giusta o sbagliata.

Per esempio il ritorno delle lucciole nei campi o perlomeno a riempirmi gli occhi era una cosa che valeva la pena di essere raccontata.

Antipippone buonista sulla felicità ovvero sul Natale.

Questa mattina mi sono alzata e mi è venuta in mente una cosa istintiva, una specie di incisione nella scheda di memoria che mi ha riportato a quando con papà preparavamo il latte con i biscotti per il passaggio di Babbo Natale o Gesù Bambino ( a seconda se eravamo a Bergamo o a Roma), per il sostegno da dare al suo lungo viaggio.

Era facile da piccoli dare senso ad un viaggio così lungo e faticoso, tutto in una notte. La logica, crescendo, prendeva sempre più il sopravvento fino a non ritenere più credibile che potesse accadere. Dice che si chiama diventare grandi. La disillusione di quando capisci che 4 renne non possono neanche entrare nel tuo terrazzino, figurati fare il giro del mondo fermandosi casa per casa.

E quindi poi cresci e ti viene da sperare che quel latte e quei biscotti papà li rimettesse a posto per far finta che Babbo Natale li avesse mangiati e bevuti per non sprecarli.

Poi cresci e sì, banalmente, vedi anche tutto l’eccesso del Natale. Insomma il disincanto e la consapevolezza sostituiscono quell’attimo di gioia in cui a piedi nudi corri sotto l’albero a vedere la misura di quanto sei stato buono, che in realtà era la misura di quanto si potevano permettere i tuoi genitori. Nel mio caso si stava bene, ma si usava morigeratezza. Educativa, credo.

Oggi non sai cosa regalargli ai bambini, ai bambini nostri dico, non a tutti i bambini del mondo. Hanno le camere piene di giochi, non hanno la cesta dei giochi da una parte: tutta la stanza è una specie di sala giochi.

Mi sembra che prima ci fosse più fantasia. Forse c’era anche meno TV o almeno non c’era solo la TV: se scrivevo una lunga lettera a Babbo Natale chiedendo il castello di Re Artù, il suo cavallo e tutto il regno, mi arrivava una coperta di lana per l’inverno che, ovviamente, era quella del Re. Ed io ero felice. Un regalo utilissimo, la uso ancora dopo più di 30 anni. E magari il monopoli.

Un anno arrivarono il libro “La Storia Infinita” (il più bel viaggio della mia infanzia) e una bambola di colore.

Un altro anno una BMX, ma non tutta, solo una parte. Il resto da pagare a rate con la paghetta settimanale.

Non voglio attaccare un pippone buonista sulla decrescita e sul consumismo, lungi da me. Ma se vogliamo ridare senso non al Natale in se (che chi se ne frega), ma al Natale come “momento di gioia infantile” (lasciate perdere che è una festa religiosa, alla fine la festeggiano tutti, inutile negarlo), forse dobbiamo restituire il desiderio ai bambini.

Se uccidiamo il desiderio li rendiamo abituati ad avere tutto e forse questo fa male. Poi ti abitui che tutto è dovuto (sì è banale ma vedo che anche le banalità non sono scontate).

Se tutto è dovuto la fantasia dorme e non immagini più niente. Io desideravo tantissime cose e mi industriavo su come chiederle. Su come sarebbe stato averle. E poi quando ne arrivava una, ero felice. Insomma se smettiamo di regalare il desiderio ai bambini, ammazziamo la fantasia e pure la felicità.

Non è una cosa che si fa con una legge e nemmeno con una religione. Non lo so come si fa, si comincia a fare e basta. Che non significa rendere un figlio infelice perché hanno tutti la PlayStation III. C’è una via di mezzo tra fare di un figlio un disadattato e fare di un figlio un buon adulto. Non so nemmeno se è politica questa è solo un umanissimo augurio che faccio a tutti i miei nipoti veri ed acquisiti: che conservino la misura del desiderio e possano provare la felicità (da non scambiare per la cultura un po’ religiosa del senso di colpa e della privazione, che non c’entra nulla quindi non tiratela in ballo).

Due giorni fa una nonna in libreria tutta felice: “…mio nipote legge tantissimo, ha una biblioteca enorme, divora libri….” Ed era stupefatta di questa eccezionalità e io dentro di me mi sono augurata che quel bambino lo proteggano come il Panda.

Vi regalo la storia di Junus, che ha 92 anni, è nato nel 1915 ha vissuto il regime albanese, poi è venuto qui a campare di elemosina ed ora recita Amleto dal suo letto di ospedale dove implora un aiuto per andare via, e insegna ancora Storia a chi lo ascolta. L’ha raccontata Ernesto. Io l’ho ascoltata dal vivo da lui.