“la vita di chi resta” di Matteo B. Bianchi

Ho appena finito di leggere “La vita di chi resta” di Matteo B. Bianchi.

Per la verità più che leggere un libro mi è sembrato di divorare un pezzo dell’autore, come un cannibale, con lo stesso sguardo guardingo che avrei avuto se avessi compiuto un atto tale in pieno giorno e in mezzo alla strada.

Mi è sembrato, malgrado autorizzata dall’autore, di invadere in maniera irrimediabile la sua intimità e non riuscivo a staccarmi dal suo dolore, dal suo “ecco qua, quello che ho dentro”, ecco qua la vita di chi resta.

Mentre lo leggevo mi sono ricordata di avergli scritto proprio circa 20 anni fa (ma ripescando nelle vecchie mail non ho trovato nulla, solo uno scambio con la mia casa editrice qualche anno dopo che voleva metterci insieme in un non mi ricordo qualche evento). Era quando cercavo goffamente qualcuno che si filasse i miei libri ed ho un vago ricordo di esserci rimasta male, ma chi se ne frega. Chissà che aveva in testa lui in quel periodo e quando dovevo essergli apparsa molesta io.

MBB, mi piaceva allora dopo avere letto “Generation of Love”, sono stata contenta nel 2013 di essere con lui nella raccolta “Le Cose Cambiano”, un progetto per ISBN nato dall’americano It gets better di Dan Savage dopo un’ondata di suicidi del 2010 di ragazzi omosessuali.

Mi piace oggi, MBB, spogliato nudo davanti a tutti noi a farci le boccacce, come uno a cui dopo “tutto questo” non frega davvero niente di quello che possiamo pensare.

Penso che MBB sia riuscito a strappare dal proprio dolore personale un pezzo di “quel che resta” da far diventare universale, da lasciare a terra – come Pollicino – per chi dovesse passare per quella strada, la strada di chi rimane quando qualcuno di così vicino decide di andarsene.

Le sue mani che incontrano quel corpo appeso nel buio, lui che parla con il figlio di S., lui che piange, lui che si masturba pensandolo, dopo. Lui che si chiede quando è il momento di dirsi scrittore.

Grazie MBB anche se mi viene da scusarmi per averti letto e so che è assurdo. Ma grazie.

Hegel: letture per il presente.

Da Storia della Filosofia, Hegel.

Famiglia. Non è per Hegel una semplice società naturale ma una istituzione, cioè una creazione dello spirito dotata di grande valore etico. Essa è un’unità spirituale, fondata sull’amore e sulla fiducia dei suoi membri.

Società civile. E’ l’antitesi della famiglia perché in essa i rapporti sono conflittuali, essendo un “sistema di bisogni”, il che implica allora l’amministrazione della giustizia, un corpo di polizia e le corporazioni, necessarie per l’ordine e la sicurezza. Essa è una società di privati, che operano per fini particolari.

Stato. E’ l’istituzione in cui si risolvono i conflitti della società civile, in cui l’interesse privato coincide con l’interesse pubblico. Viene definito da Hegel come “la sostanza etica consapevole di sé, la riunione del principio della famiglia e della società civile”. Quali caratteristiche ha lo Stato per Hegel? Esso non vuole essere è liberale (LockeKant ecc.) nel senso che non vede nello Stato lo strumento che deve garantire la sicurezza e i diritti dei privati, né Hegel lo vede come un tutore dei particolarismi della società civile. Non vuole neppure essere democratico per cui la sovranità dovrebbe risiedere nel popolo (Rousseau). Per Hegel invece la sovranità dello Stato deriva dallo Stato stesso, che ha in sé la propria ragione d’essere, il che significa che lo stato hegeliano non è fondato sugli individui ma sull’idea di Stato, cioè sul concetto di un bene universale. E’ lo Stato che fonda gli individui: sia in senso cronologico-storico-temporale (esso viene prima degli individui; gli individui nascono già all’interno di uno Stato), sia in senso ideale-assiologico (lo Stato è superiore agli individui come il tutto alle parti). Lo Stato hegeliano, comunque, pur essendo assolutamente sovrano, non è dispotico o illegale perché anzi deve operare con le leggi; è uno Stato di diritto (Rechtstaat), fondato sul rispetto delle leggi e sulla salvaguardia della libertà e della proprietà. In questo Stato, la costituzione migliore è quella monarchico-costituzionale, con la tripartizione dei poteri in legislativo (affidato ai rappresentanti dei vari ceti o stati sociali; stati o ceti sociali da non confondere con le classi sociali antagonistiche dei proletari e capitalisti di cui parlerà Marx), esecutivo (affidato al governo) e sovrano (esercitato dal monarca). Nel sovrano si incarna l’unità dello Stato ed a lui spetta la decisione ultima circa gli affari della collettività. Il vero potere politico è quello del governo. Lo Stato è in ultimo per Hegel la “volontà divina” ovvero “l’ingresso di Dio nel mondo è lo Stato”. E come vita divina che si realizza nel mondo, lo Stato non può trovare nella morale un limite alla sua azione. Il solo giudice ed arbitro sarà lo Spirito Universale cioè la Storia, che ha, come suo momento strutturale, anche la guerra ! essa non è solo necessaria ed inevitabile, ma preserva gli uomini – dice Hegel – dalla fossilizzazione a cui li ridurrebbe una pace durevole. In questo Stato, si ricordi, non vi è il potere giudiziario perché è demandato alla società civile.

In conclusione, Hegel è “semplicemente un conservatore, in quanto pregia più lo stato che l’individuo, più l’autorità che la libertà”(N. Bobbio, Studi hegeliani, Einaudi).

Leggete e…”Godete!”

Alessandra mi ha spedito un libro rosa.

A casa mia di rosa non c’e’ nulla, manco una salvietta piccola del bagno. Il rosa e’ bandito non in quanto simbolo (evitiamo banalita’) ma per il suo carattere tenue che non si sposa con il blu, il legno ed il bianco e non puo’ fare nemmeno da accessorio come l’arancione e il verde.

Non ho un buon rapporto con il rosa,l’ho sempre trovato un colore con il quale i miei bianchi e i miei neri non potevano dialogare. Alessandra Di Pietro scrive per Gioia e scrive di donne (e anche di politica).

Fa un mestiere a cui gli intellettuali di ogni tempo attribuirebbero un posto in seconda fila tra le categorie culturali. E invece l’esercizio di Alessandra (nei suoi pezzi come in questo libro) e’ quello di scavare in profondita’ oltre l’idea superficiale (rosa, oserei dire) che questo Paese ha delle donne.

Cosi’ “Godete!” fratello del rosso e più dichiaratemente politicizzato “Indignatevi!” (entrambi edizione add Editore) finisce per divenire un piccolo manifesto politico al femminile che riesce a non accennare mai alla retorica autoreferenziale femminista e nemmeno a nominare mai “la donna al tempo del berlusconismo”, non candidandosi a libretto di rabbia e rivendicazione, ma a vero e proprio grido di liberta’ della donna post-moderna: quella che per esempio nei partiti non si chiude nelle consulte al femminile rivendicando poltrone a difesa della specie.

“Godete” non si conforma nemmeno all’anticonformismo (quando sbaraglia in un paragrafo le definizioni sessuali e ce ne libera definitivamente ha fatto venire la pelle d’oca anche a me), e’ un viaggio libero nel mondo al femminile e nelle sue estremita’ più nascoste, come quella della nascita di una pornografia non più a misura di maschio o della vita sessuale oggi di chi era giovane negli anni settanta e aveva intuito (poi dimenticandolo nelle spire del borghesismo di ritorno) che la rivoluzione politica andava a spasso con quella sessuale (individuo e collettivo come imprescindibile binomio di sana politica). Questo libro dovrebbe essere una specie di passaggio battesimale.

Leggetevelo, liberatevi e poi potete anche fare la rivoluzione. Consiglio di leggerlo in due o più donne, magari a letto e ad alta voce. Ma so che, leggerlo, farebbe tanto bene ai maschi italiani: so che comincerebbero a guardare le donne in modo diverso, magari anche più affascinato, perche’ finalmente le escoprirebbero. Evviva la liberta’.

Canale Mussolini: il luogo della memoria che mancava tra Pavese e Vittorini

Il luogo della memoria collettiva è anche qui.

Nei luoghi bonificati dell’Agro Pontino dove per fortuna è nato uno scrittore dalle qualità formidabili, un proletario, un operaio un eretico di quell’intellettualismo che ha scritto la storia del ventennio, l’ha sancita, scolpita, in parte cancellata, trasformandola spesso in inutile agiografia, così disumanizzata da non venire più nemmeno letta con grave perdita per le ultime generazioni così disilluse e critiche da sembrarci indifferenti. Questo libro dovrebbe essere letto nelle scuole per spiegare come è accaduto il ventennio, la nostra indolente connivenza collettiva sia prima che dopo. Dovrebbe essere letto con occhi puliti, anche io ogni tanto storcevo il naso, a tratti mi sembrava persino fascio-agiografico, ma lo scrittore si è calato nel ricordo di famiglia, nel racconto sincero e bonificato dalla fuga intellettuale del dopo. Questo libro riempie quel vuoto appenninico e centroitaliota che sana quella voragine che c’è sempre stata tra il Pavese della Luna e i Falò e il Vittorini di Conversazione in Sicilia. Lo fa dal basso, in dialetto spesso, e in un modo semplice. La Storia di una famiglia italiana che si intreccia con quella del Paese e quindi è prima romanzo di affetti e poi di storia. Pennacchi è sempre attento a distinguere i due piani e lo fa citando una lista di riferimenti storici, al fondo del libro, da fare invidia ad un testo di storia. Come siamo divenuti clericali, come siamo divenuti fascisti. Come siamo divenuti bigotti, come siamo divenuti confusi e come siamo divenuti lo zimbello del mondo. Leggetelo. C’è tanto da imparare in questo libro e non solo per la nostra generazione, ma anche per quelle precedenti. I nostri nonni queste le cose le sanno, magari non sempre le hanno volentieri raccontate. Ma loro sanno. Sarebbe bello leggerlo con i nonni questo libro. E farlo leggere di forza ai padri ed ai fratelli maggiori.

Ieri, guarda caso, risalendo la strada che dai 35Km di costa lucana, incastrata tra la Campania e la Calabria, abbiamo incontrato Gennaro, classe 1920. Gennaro ci ha tenuto un’ora sotto il sole che cuoceva, vestito di velluto, la canottiera, la camicia, il panciotto, un bastone tra le mani ed un secchio per andare a fare le mele. Ci ha raccontato in dialetto della guerra, ci ha raccontato di essere partito nel 1940 e tornato nel 1947. Ci ha raccontato delle botte prese in India, nel campo di concentramento inglese. Ha riso della politica di oggi. L’ho pensato a venti anni, partito con altri italiani, come lui, un mischiume di dialetti che chissà come diavolo si capivano. E’ partito contadino ed oggi fa ancora quello, come se il resto del mondo, noi il 1968, internet, l’Iphone, manco fossero mai esistiti. Il tempo fermo di un vecchio che ha visto tutto e potrebbe dar lezioni a tutte le generazioni dopo. Quanta Italia (ed Europa e Mondo) c’è così…serena del suo essere…che non c’azzecca niente con la Patria, è qualcosa che ha a che fare con la terra, la terra terra la stessa del sacchetto di Terra e Libertà, la stessa del Piemonte di Pavese di ritorno dagli Stati Uniti, la stessa che profumava di arance di Vittorini che tornava a casa. E poi di nuovo in questi giorni i pastori sardi sono scesi a bloccare le strade perché non ce la fanno più ed i formaggi sardi si fanno con latte venuto da altrove. E’ come qualcosa che tutta la nostra giovinezza frenetica e viziata non riesce e non riuscirà a sotterrare, appunto.

Leggetelo. Leggetelo. Leggetelo.

p.s. di Pennacchi mi spiace solamente ritenga che D’Alema sia l’unico di sinistra intelligente. Lo andrò a cercare per dissuaderlo, oppure vediamo se lui dissuade me.

Eva Dorme. Francesca Melandri, ed. Mondadori 2010

“Eva dov’è?”

“Eva Dorme.”

[cit.] L’ho perso come si perde al luna park, il contrario di quando tiri bene la palla di stracci, butti giù tutti i barattoli e poi ti danno il premio. Io ho tirato, ma non ho vinto. Non ho vinto un padre. [fine cit.]

Conosco l’autrice e questo mi ha fatto avvicinare al libro con la circospezione e l’imbarazzo che si ha quando si teme di dover concludere forzatamente che il libro è bello anche se non lo si pensa davvero. Non l’ho trovato in libreria per caso, avevo una missione che doveva compensare un mancato arrivo “dedicato” per un disguido postale. Forse nemmeno lo avrei comprato, magari, chissà.

C’ho inciampato. Ho inciampato nelle stelline che sono quelle che Francesca ha usato nei pochi pezzi di un mio lungo scritto e che lei ha letto, per dire che quel passaggio le piaceva, le suonava, andava giù come acqua di fonte.

Era pieno di stelline “Eva Dorme”.

E quando si inciampa ci si fa pure male, perché in certi punti ti salgono le lacrime, quelle dello stomaco, non quelle del cuore che vengono da talmente giù che non arrivano alle guance. Quelle che ricacci. Lo fa in modo delicato di colpirti tanto che quando accade ti senti stupido come se fossi cascato in un tranello, invece si è trattato solo di un ricordo che contenevi e che riemerge.

Non voglio dirvi nulla sulla trama. C’è persino, a me gradito, il racconto politico dell’Alto Adige che investe, si intreccia, uccide, separa i protagonisti della storia.

C’è l’infanzia. C’è la montagna. C’è la forza di una madre e poi c’è una storia d’amore, di quelle storie che non hanno ospitalità sulla terra, proprio non possono risolversi perché o tutto o niente, e che pure restano tra le dita, per sempre, le dita di chi le vive e le racconta. C’è l’abbandono forzato, quello di quando non si dovrebbe, ma non si può fare altro.

Ci sono enormi mancanze saziate.

Ci sono delle immagini mozzafiato come un reggiseno rosa, di notte, illuminato da un gatto delle nevi come dalle luci di un concerto rock.

E poi c’è una donna, Gerda, che dovete leggere anche dove non è scritta.

E poi c’è una donna, Eva, che dovete leggere anche dove non arriva.

Buona lettura.

J.D.S. [good bye]

Non sapevo nemmeno che fossi vivo, perché sai, a volte, i libri sopravvivono e cannibalizzano chi li scrive. Accade quando sono bei libri o quando chi li scrive è così bravo da capire di non essere in grado di fare il bis e preferisce,  quindi, vivere piuttosto che interpretare la parte dello scrittore famoso.

Gin a body meet a body Coming thro’ the rye, Gin a body kiss a body Need a body cry?

Dicono che Holden era solo un bravo ragazzo che voleva realizzare il suo sogno di libertà, prima di tornare a casa.

Il fatto è che, spesso, in quei viaggi, la strada di casa si perde in modo ineluttabile.

“Sa le anitre che stanno in quello stagno vicino al Central Parck South? Quel laghetto? Mi saprebbe dire per caso dove vanno le anitre quando il lago gela? Lo sa, per caso?”

Già.

Dove andate voi, anitre, quando il lago gela?

Inadeguati alla felicità.

Pessima lo ha fatto di nuovo.

Mi ha strappato le emozioni di dosso (ispirata da Dorian Gray, prof?)

Quindi oggi ho letto e non scrivo. Non qui, almeno.

p.s. la citazione di Tonio Kroger mi ha scaraventato tra i brufoli – inadeguatissimi – dei miei 15 anni. Scorretto biglietto del treno per lettori taciturni. Credo che oblitererò all’arrivo.

Readingmood#1

Spesso la lettura è più dolorosa della scrittura.

E questo blog è bellissimo.

L’ho trovato aprendo una piccola valigia di cuoio e seguendo un sentiero stranissimo, come quando cammini all’indietro fino ad una notte di neve. Come quando con la lente leggi parole più piccole dei tuoi occhi.

Guardi segni e graffi più forti dei minuti che passano.

Insomma, come quando ricordi.

L’ubicazione del Bene (come l’Eleganza del riccio)

Ecco un altro libro da “lancio” come l’Eleganza del Riccio (già commentato qui). Stavolta però l’ho finito. Avevo dato molte speranze a questo libro. La frase sul dorso:
“Chi usciva alle sei di pomeriggio dubitava della forza aziendale. Chi usciva alle otto di sera dubitata della vita” Mi aveva fatto pensare ad una divisione umana. Ad un mondo guardato sotto tutti i punti di vista, a due modi, del nostro tempo, di essere felici o frustrati ed entrambi o nessuno dei due.

Mi aveva fatto attendere un libro che avrei potuto citare per raccontare il nord o la nostra generazione, in qualche dibattito pre-congressuale.

Lo pensavo un affresco. Ho pensato: ecco il cantore del nostro tempo.

Macché.

Mi sono scontrata contro uno scrittore che aveva una cosa da dire soltanto, un racconto da fare soltanto e invece ha ripetuto lo stesso concetto per dieci racconti. Sfigati impiegati in odore di carriera che fanno lottare pesci carnivori e licenziano malate di cancro, malati di mente che mettono cani nel forno, ciabatte sfigate ovunque, coppie tutte in fase di separazione, già dal primo giorno dopo il matrimonio. Figli odiosi. Monovolume fallici, mogli isteriche. Gravidanze fatte solo e soltanto di ansie. E ancora mutui impagabili, pignoramenti o invasione delle tarme a distruggere coppie. Un trito e ritrito che ha l’unico grande pregio di essere scritto spesso molto bene.

Ed è questa la cosa che più mi ha fatto rabbia. Vedere un talento sprecato così nel rintocinarsi su di sé, nel dire, continuamente: guarda, lettore, guarda come scrivo bene. Guarda che metafore. Sarà che sono un lettore di trame. La scrittura un condimento necessario, ma non sufficiente.

Tutto quanto, in questo libro, è seriale. Ecco. Giorgio Falco è uno scrittore seriale (molto killer anche).

Pur nella “buona” scrittura, come dicevo prima, piglia certi traversoni (per usare una metafora calcistioca da essere quasi insopportabile:

Frasi come:

[…] il suono arriva alla coppia come una macchia accidentale su un pantalone blu in fresco lana.[…]

[…] il grosso collo continuava nella testa rotonda che a stento entrava nel cappellino da baseball sponsorizzato da un’azienda di pellicole in fallimento.[…]

[…]più simile ad un idraulico che compila il modulo di revisione annuale della caldaia in un pomeriggio invernale a metà settimana.[…]

Capite? Per tutto il libro c’è un fresco lana di troppo, un’azienda che fallisce di troppo (ma che cosa c’entra, perchè dirlo, cosa cambia, cosa aggiunge, che ce frega di tutto questo squallore così global??????), una metà settimana di troppo. Questo ne fa un libro da lancio e mi chiedo chi diavolo di editor possa mai aver avallato questa ricerca smaniosa ed ansiosa di chiudere le frasi in questa maniera insopportabile, nemmeno barocca, proprio odiosa.

Chi di Einaudi ha paragonato Cortesforza alla Regalpetra di Sciascia dovrebbe sotterrarsi di vergogna. Cortesforza è un luogo inesistente, è monocorde, non lascia alcun colore per distinguere il grigio…così finisce per divenire piatto (vorrebbe essere metafora della provincia milanese, ma è metafora di insenbilità letteraria!).

Regalpetra è un luogo dove ogni personaggio è diverso, dove i colori, la mafia, il sangue, la violenza e i limoni, la gioia e il dolore, convivono. Come nella vita vera. Appunto.

Questo libro è un’occasione sprecata e i geni mi si sono rivoltati nel DNA (questa la spiego solo in privato e solo mediante presentazione di una laurea non in lettere o filosofia. Ritengo che i suddetti capiscano senza spiegazioni e sorridano di me con dovuta compassione).

Altri sullo stesso tema (perché sono democratica e sono palesemente in minoranza, stavolta):

Carmilla.

La poesia e lo spirito.

Vibrisse. (questo vale la pena leggerlo…definisce il titolo del libro polisemico…mi verrebbe da chiedere se “se magna”? Ma guarda se uno deve leggere una critica ad un libro con il vocabolario in mano…però quanto fa radical-chic, signora mia, farsi leggere con il vocabolario).

p.s. ok, lo confesso. Ho un’idea sovietica e comunista della cultura. Essa deve avere uno scopo e soprattutto deve essere divulgabile, comprensibile, utilizzabile, distribuibile. Ops. Ma non è democrazia questa?

Ok, ok, ok….

Chiedo venia. Me ne vado in castigo per mezza giornata a leggere, che so….non so.

Mi meriterei un sano sporcaccionissimo Bukowski che uno come a Falco, lo avrebbe preso a calci in culo con la bottiglia in mano. E a ragione. Nel suo libro non c’è nemmeno una scena di sesso. Manco a 15 giorni dalla luna di miele.

Vabbé, ho esondato. Questione di vino (cit.)

Ciao Fernanda.

Oggi è morta Fernanda Pivano.

Cosa dire della persona che ha tradotto per prima Moby Dick?

O che ha scritto la prefazione di “On the Road” nella sua prima uscita in Italia?

O che ha portato Spoon River in Italia, cresciuta ed allevata da Cesare Pavese?

Cosa dire di una donna amica di Hemingway e acuta lettrice (non ascoltatrice) di De André, la prima a definirlo il più grande poeta italiano del Novecento?

Poco da dire, tranne che lo stampo, di tutti questi, qualcuno ad un certo punto lo ha perso.

E noi in Italia ne sentiamo tanto la mancanza di gente così.

Godetevi la sua intervista ad un Jack Kerouac che sembra più fatto di Bukowski.

Ciao Fernanda.

Book Party e Galateo.

Il Book Party dove Flavia Amabile presentava il suo libro (Fiordamalfi) era a casa dell’editore…a Via delle Fornaci, che per chi non è di Roma è la via che costeggia il Gianicolo che porta da Villa Pamphili a San Pietro…insomma il cuore della Roma romana per davvero. Ovviamente ci arrivo con il tuttocittà perchè che cosa ne so (sapevo) io delle vie di Roma anche se le ho fatte 100 volte? e mi aspettavo una libreria…non una Villa!

Insomma arrivo, reduce dalla Lectio del Vangelo (tranquilli, niente conversione, solo un saluto ad un parroco palermitano che strappa dalla strada prostitute e trans e tempo fa fu pure esiliato in montagna). Arrivo in jeans e maglietta ed infradito e…chiaramente mi ritrovo fuori posto sia per età che per il resto…vabbé….è Roma…è barocca e faccio finta di essere torinese e di non pensarci, però l’impatto iniziale è buffo, immaginatevi questo viale che sale con le torce accese ed io sono davvero fuori posto, un pò James Dean al ballo delle debuttanti a Vienna (passatemela, dai).

Il book party prevede finger food and drink (ULP!), la presentazione dei libri di Flavia, tra l’Armenia e il romanzo, e poi un concerto blues nel parco della villa.

Flavia non me ne voglia ma l’attrazione della serata è stata una vecchia signora di 85 anni (di origini torinesi, chettelodicoaffà) madre di una nota parlamentare del PD che ha trascorso con me l’intera serata parlando di Torino, del fatto che fino a qualche anno fa faceva piste nere e ferrate però ora l’hanno operata alle anche e si annoia maledettamente, del fatto che ha un MBA, che i torinesi sono cortesi e non falsi, che però ha 3 figlie e ha seguito il marito negli USA come tante donne dell’epoca. Che nel ’45 votò De Gasperi, però poi votò Berlinguer e che non voleva una mano ad alzarsi dai gradini, perchè….sì…per ascoltare la musica l’ho portata sui gradini come se avesse 18 anni.

Era pieno di attori di fiction, di giornalisti tv e stampa, di donne che al dito portavano tutte le fedi di tutti i loro matrimoni, di nasi rifatti, di guance troppo piene per essere sorrisi veri, di  chi si avvicinava alla parlamentare per parlare dell’Italia (o per chiedere qualcosa)…di gente che ha fatto Roma…la Roma che deve rinascere…(sì, quella che è morta…già).

In bocca al lupo a Flavia per il suo libro che leggerò in coda agli altri…coda che si allunga ogni giorno di più e che necessiterebbe vacanza al mare per accorciarsi.