Detesto dirlo, ma…

Detesto dirlo ma dò ragione a chi (Calenda, sob…e davvero destesto dirlo) sostiene che si debba definire un’identità e quella definizione non può contemplare Bonelli/Fratoianni con Calenda ma anche tantissima parte del PD che non ha seguito Renzi ma che da quella storia, da quella visione di Paese viene. Dire no ai rigassifigatori non ha nulla di ambientalista (tanto per capirci sul termovalorizzatore ho un’idea diversa da Calenda, servono impianti di trattamento nel 2022, non siamo nel 1990).

Il PD ha la palla in mano dell’identità di quello schieramento che NON può essere solo NO Meloni, No Salvini anche se ho una lista lunga un KM per dire di NO a Meloni e a Salvini. Ma per parlare alla maggioranza del Paese serve delineare un piano, una visione e quella roba lì non passa per degli slogan. Il Lavoro! Che vuol dire il lavoro? Per me (per esempio, eh): diminuzione costo del lavoro, incentivi per chi ha codici ATECO ad alto peso di Mano d’Opera, RDC a tempo con vero reintegro, ma salario minimo.

Sedetevi: delineate un programma sulle cose più importanti, sul posizionamento internazionale (oggi più che mai fondamentale, importante, vitale, necessario, CONDITIO SINE QUA NON) e poi diteci se state insieme per 5 anni su queste cose o se dovete fare un accrocco per farvi votare contro Meloni. In questo ultimo sciagurato caso, ci sta che io vi voterò (dando sopravvivenza ad una quasi eterna classe dirigente) ma un bel pezzo di Paese che è quello che CI serve per poter avere una possibilità di futuro dica: ANCHE NO. Quindi, che si fa?

Insicurezza.

Una delle cose che ho imparato dell’umanità è a non dire mai cosa farei io “in quella situazione” se non mi ci sono trovata. Cerco di non farlo mai. Ho visto troppe persone trasformarsi in mostri o in eroi in circostanze “speciali” per dire persino di me stessa che “non sono così”. Alcune cose mi sono capitate e con sollievo ho scoperto che non sono ”così”. Piuttosto mi domando sempre “perché?” e solo rispondendo a questa domanda penso si possa risalire alle cause, cercare di evitarle in futuro.
Racconto una cosa.
Sono tutrice di un giovane ragazzo nigeriano, chiamiamolo X., che vive in una casa famiglia. Oggi ha 13 anni. Ci è arrivato dopo almeno due anni di avventure in cui gli sono successe tantissime cose: la madre lo ha affidato ad ”un “signore”. Con quel signore è stato in Libia dove poi sono stati arrestati. X parla bene di questo signore. E parla anche bene di un carceriere che lo ha fatto evadere, cacciato in un portabagagli (immaginate vero vostro figlio di 11/12 anni in un carcere libico fatto evadere in piena notte e messo in un portabagagli, ditemi che lo immaginate) portato al porto o in spiaggia, caricato su una nave e detto ad una donna di dire che era suo figlio. La donna arrivata in Italia (si, X poteva essere uno di quei corpi che galleggiano nel mar Mediterraneo, invece gli ho comprato gli scarpini da calcio) ha detto di essere la madre ma poi no e X si è ritrovato minore non accompagnato. È arrivato a Roma ed è finito in una casa famiglia piena di ragazzini italiani che se stanno in una casa famiglia certo non sono i più sereni al mondo e X si è difeso come poteva. X è molto incazzato. Quando non trova le parole o forse quando gli risale il viaggio, l’abbandono, la nave, la madre, il Signore, il carcere, il carceriere, mena le mani. E si X è un ragazzo pieno di rabbia. Che oggi dopo molti mesi in un’altra casa famiglia meravigliosa sta diradando la sua violenza. Sta imparando a parlare. Non reagisce più come all’inizio e la sua casa famiglia ha creduto in lui anche quando sembrava difficile farlo. E forse X ha la possibilità di non essere uno che tra qualche anno si caccerà nei guai sbottando all’ennesimo sopruso reale o percepito.
E sì, anche l’omicidio del commerciante ad Avellino può essere di matrice razzista, perché se facciamo durare quei viaggi due anni, se lo rendiamo difficile, violento, terrificante, stiamo generando quella violenza. È come il carcere, come ci insegna Alessandro Capriccioli (tra gli altri) ogni giorno: se il carcere è violenza, solitudine, assenza di speranza diventa una fabbrica di qualcosa di peggio di ciò che è entrato. Ogni volta che rendiamo complicato arrivare qui, ogni volta che li facciamo stare sotto il sole o buttati in migliaia in un centro di accoglienza che potrebbe tenerne 300, produciamo insicurezza e violenza. Esatto.

Trent’anni fa.

Trenta anni fa arrivavo a Palermo per la seconda volta della mia vita.
La prima di cui ho memoria.
“Tornavo” a casa, una casa negata perché i migranti della Sicilia si dividono in due categorie: quelli che tornano sempre e quelli che non tornano mai. Perché le vie di mezzo non appartengono a quella terra, non appartengono al nostro sangue, tutto è drammatico sia la nostalgia della lontananza che quella del ritorno. E mio padre era di quelli che preferiva non tornare.
Io sono di quelli che torna anche se non è da lì che sono partita.

La Sicilia veniva da noi, quindi la conoscevo nei racconti, nella parlata di mia zia, dei miei nonni per ciò che ricordo, delle mie prozie che vivevano a Roma (noi eravamo migranti doppi perché dalla Sicilia a Roma alla Lombardia, raddoppiando dolore e sforzo del ritorno).

Quel 19 luglio, era morto da poco Giovanni Falcone.
Dal 23 maggio sono passati nemmeno due mesi.
Palermo è blindata, cupa e viva allo stesso tempo. Triste e reattiva. Tutto insieme. Io ho 16 anni e in quei giorni giro per i quartieri di Palermo facendo fotografie (col rullino in B/N) e le mie zie comandano mio cugino di seguirmi per paura che mi accada qualcosa. Mi infilo ovunque, con l’incoscienza di chi non è cresciuto sapendo dove non si può andare e dove sì (e di chi ha 16 anni). Non chiedo permessi, fotografo scritte, manifesti, persone, bambini che vendono sigarette Marlboro di contrabbando vicino alla Martorana.

Il 19 luglio del 1992 la Mafia fa esplodere mezzo quartiere per ammazzare Paolo Borsellino. Una strada sventrata, i vetri rotti fino agli ultimi piani. Beirut.
Il 23 maggio era toccato ad un tratto di autostrada a Capaci.
Il 19 luglio un pezzo di città.
In meno di 60 giorni la Mafia ha aperto voragini per inghiottire due dei suoi figli. Due dei suoi figli più figli.

Per caso ero lì. Appena arrivata in una terra che aveva cominciato a piangere a maggio e le cui lacrime sembravano finite e invece ricominciarono. Caponnetto disse: “E’ tutto finito”. Tutti ci mettemmo paura a quelle parole.

E invece quel fondo (credo) divenne la pedana di un rimbalzo, perché c’è sempre un fondo da cui si riparte, da cui si risale, da cui si reagisce.

Le morti di Falcone e Borsellino (e di Francesca Morvillo e degli agenti Schifani, Montinaro, Dicillo, Loi, Catalano, Li Muli, Cosina, Traina) hanno chiuso un ciclo, un’epoca è stata spazzata via completamente.

E dopo 30 anni quella Storia ancora non è stata raccontata del tutto, ancora non sappiamo tutto.

Spesso penso, ricordando quelle voragini, quello sfoggio di violenza, che non sappiamo niente.

Accontentare tutti, tranne il futuro.

Da tempo sono “lontano” dalla politica attiva. Il che non significa che la politica, anzi la Politica, non mi interessi più. Anzi. La situazione italiana continua a farmi soffrire, arrabbiare, immaginare il futuro. La lontananza mi ha regalato lucidità, ha stagliato le cose importanti dalle cose meno importanti. Credo sia una situazione comune a molti di noi, quelli che all’inizio del secolo, da svariati percorsi (attivismo, associazionismo, etc), si erano avvicinati ad una nuova idea di “organizzazione”, cosiddetta più aperta e fluida all’interno dei partiti. Buona parte di quella “gente” di noi, è stata espulsa dal sistema come indesiderata, una piccola parte è stata assorbita ed è diventata parte del sistema. Da fuori l’impressione che si ha, oggi, è quella di un sistema tornato dormiente, un sistema meno dialogante con i frammenti della società e che cerca di restituire ai corpi intermedi (sindacati, associazioni, movimenti, etc) il ruolo di consultazione. Ma i corpi intermedi hanno (spesso) la stessa malattia dei partiti (chiaro che se poi devo pensare chi è degno di essere chiamato partito onestamente in tutto l’arco parlamentare me ne vengono in mente appena 3 o 4) e quindi il rischio che quel dialogo sia esaustivo dei temi sociali del Paese è elevatissimo e tutto sembra essere sempre più autoreferenziale, soprattutto pensando alle nuove generazioni e ai temi che ogni giorno mettono sul tavolo: il lavoro, il modo di lavorare, nuovi modi di lavorare, rifiuto categorico e sacrosanto di sottostare a condizioni che persino alla mia generazione sembravano normali e accettabili. E c’è un altro aspetto che riguarda quella “mancanza” di empatia tra partiti e società: il calo di consensi o il fatto che nessuno riesca a spostare flussi ingenti di consenso intorno ad un’idea complessiva di società. Anche le idee sono frammentate, suddivise per singoli parlamentari che fanno singole battaglie: chi i diritti civili, chi quelli sociali, chi le prese degli smartphone, chi la situazione geopolitica, ma senza che appaia un’idea di Paese e del suo ruolo in Europa e nel mondo in grado di stimolarci di nuovo a “credere” in quella visione. Forse quella visione oggi non c’è, non riesce ad emergere con chiarezza, è un puzzle di idee (spesso anche buone), ma senza un senso complessivo. Ecco se dovessi dire cosa manca oggi alla politica, cosa manca a me è il senso complessivo, vedere la meta da raggiungere, l’asintoto. Che non è la mancanza di un’ideologia, ma proprio di un progetto. Che tipo di società pensiamo nel 2040? Come lavoreremo e quindi che azioni bisogna mettere in campo? Come ci muoveremo? Cosa produrremo? I ministeri lavorano ogni giorni su questi scenari, ma sembra quasi che sia un lavoro da burocrati più che politico, come se fosse – ancora – un mettere insieme pezzettini per accontentare tutti, tranne il futuro. Che pensate?

Se con la ristorazione non si mangia più.

L’ennesimo appello di imprenditori della ristorazione che si lamentano di non trovare personale.

Alcune (ennesime) riflessioni.

Primo. Ci sono troppi player sul mercato. Pensateci: si mangia qualcosa ogni 10 metri nei posti popolati e in pochissimi si mangia bene. Perché? Perché tutti pensano che aprire un ristorante sia una cosa semplice e dal guadagno facile. E fino ad adesso per certi versi è stato così: comprare la roba a poco e propinarla a clienti (magari turisti visto che ne siamo sempre stati inondati) e pagare poco giovani ragazzi. Pagare poco con le seguenti modalità: pagare in nero e se va bene fare contratti da 20 ore e farne lavorare 54 con turni massacranti per massimizzare i profitti.

Secondo. Bassa cultura del cibo da parte dei clienti e ancora di più del contesto turistico permettono basso livello enogastronomico.

Terzo. Il concetto di sacrificio legato alla ristorazione come unico strumento di apprendimento è ancora duro a morire. Se queste cose lo dicesse il CEO di un’azienda metalmeccanica saremmo tutti in piazza con lo forche. Nella ristorazione sembra essere vero. Le leggende dei pizzaioli che iniziano a 10 anni pulendo i cessi sono VERE. Il mondo della ristorazione stenta ad evolversi, stenta a trovare soluzioni industriali in termini di processi e di gestione che mantengano alta la qualità dell’offerta e migliorino le condizioni di vita delle persone che ci lavorano. Credetemi che è possibile: lavorare bene e far mangiare bene.

Quarto. Assenza di controlli fiscali e lavorativi (su HCCP per fortuna siamo una best practice europea) su questo tipo di aziende ha fatto proliferare il dilettantismo (lo può fare chiunque) e nello stesso tempo il banditismo. Serve trattare la ristorazione come una qualsiasi azienda. Questo farà selezione, farà incazzare molti, ma eleverà il livello di qualcosa che è patrimonio nazionale e culturale ed andrebbe preservato come si preserva un’opera d’arte.

La pandemia ha fatto emergere questa enorme falla nel sistema e nello stesso tempo (per fortuna) le nuove generazioni possono scegliere. Conosco tantissime persone che lavorano nella ristorazione e so che si può lavorare bene, pagare bene, fare margini e far mangiare e bere bene i clienti. Basta saper fare questo mestiere. E non tutti lo sanno fare o hanno saputo evolversi in funzione delle esigenze dei clienti e dei dipendenti come altri settori.

Il secolo ereditario

Non ho molto da dire in questi giorni e ho molto da pensare, leggere e ascoltare. Provo a capire cosa possiamo fare da qui: nelle farmacie potete acquistare farmaci servono paracetamolo, garze, ghiaccio secco e ovatta e altro e forse potete cercare dei punti di raccolta per mandare vestiti. Se avete spazio in casa potete dare disponibilità a Welcome Refugee e organizzazioni simili. Se vi fidate potete inviare soldi a chi si organizza al confine per accogliere i migliaia di profughi che scappano dalla guerra. Nei prossimi giorni provo a dirvi qualcosa su questo.
Provo imbarazzo per non essere utile, vergogna per non conoscere la storia dell’Ucraina per cui leggo, ascolto, torno indietro alla guerra di Crimea, ai giorni di Euromaidan.
Sorrido mestamente nel vedere le donne dell’est che vivono nelle nostre case mobilitare le famiglie in cui lavorano: ieri sentivo alla radio di due ragazzi partiti con un furgone per andare a recuperare al confine polacco i figli della badante della madre di uno dei due. In tre giorni prima di partire hanno riempito anche il furgone di cose per lasciare aiuti. Me l’immagino queste scene nelle case (ovvio non accadrà in tutte).

Questi dibattiti fitti nelle cucine tra seconde generazioni di occidentali e donne dell’est.
Nel dramma è un po’ l’Europa che si fa.
Chi in nero. Chi per bene. Ma si fa tra pannoloni, spezie che si mischiano, racconti di guerra dei vecchi assistiti e di donne da guerre più recenti.
La nostra è rumena, la sua famiglia è a 200km dal confine. Racconta di arrivi anche lì e di aiuti che partono da posti dove uno stipendio part-time in un call center è di 300€ (quando sentite: “le risponderemo dalla Romania” per capirci) Duecento chilometri è come se la guerra fosse a Napoli. O a Viterbo.
Penso a scenari possibili senza avere alcuna certezza, invidiando chi ne ha. Mi sveglio la notte per vedere se la guerra è finita, ho paura che se va avanti a lungo ci annoieremo. Quando scalerà la notizia dalla prima pagina, diventerà cronaca e dimenticheremo per l’ennesima volta? Oppure non andrà così e sarà peggio?

Questo è il secolo ereditario. È l’erede del 900. Della sua corsa di progresso senza limiti, senza filosofi a gestirne il peso etico come era sempre (quasi) accaduto, che ha già impatto irreversibile sul cambiamento climatico. Del fare guerre senza usare tutte le forze perché ormai TUTTE le forze sono persino troppo persino per chi le usa.
Speriamo almeno: ma è la prima volta che accade che l’umanità si ritrovi in guerra senza dispiegare tutta la potenza disponibile ed è questo uno degli abissi del pensiero. Tutti ci stiamo chiedendo se esiste al mondo qualcuno così folle da dispiegare quella potenza. Per vedere l’effetto che fa. Per sentirsi onnipotente. Mi chiedo come si ferma, come si gestisce questa cosa. Non siamo fatti per gestire l’infinito. Dopo milioni di anni non abbiamo ancora nemmeno fatto pace con la morte. Figuriamoci con l’infinito che le è congiunto.

Se davvero siamo nelle mani dei singoli o c’è un sistema di protezione collettivo che impedisce quel PUSH e poi più niente. Ve la ricordate la narrazione che fa Michael Ende del Nulla che avanza e divora tutto nella Storia Infinita?

Va armata la resistenza per logorare la Russia, per deporre il tiranno per mano delle madri russe orfane dei figli caduti e degli oligarchi senza Mastercard? Bisogna chiedere all’Ucraina di arrendersi per evitare altre vittime civili per poi comunque dovere cedere? E se il tiranno non trova via di uscita e fa “PUSH e poi più niente” su quel pulsante e ci spazza via tutti? Invidio chi ha risposte è come se lo guardassi dal muro di Berlino, verso est, come se non avesse ancora varcato.
Da quel giorno mi sembra che le certezze siano venute giù con i mattoni. Credo che questa banalità sia già stata detta.
È questo il tempo che viviamo e il bene rifugio non ha più la forma di blocchi e collettivi contrapposti, ma ha la forma di piccole cose e ha una sua semplicità.

La semplicità ora è che c’è una guerra (sì è vero non è l’unica nel mondo). Ci sono migliaia di profughi (magari torneremo ad imparare che un profugo è un profugo è un profugo). C’è un tiranno che per resistere sta bombardando una nazione sovrana (che aveva le sue innegabili instabilità separatiste), che sta chiudendo i social network, arrestando giornalisti, minacciando 15 anni di carcere a chi parla di invasione. C’è un tiranno che forse non si accontenterà dell’Ucraina. E se fossimo noi in quella situazione anche noi vorremmo resistere.

Davvero non sappiamo da che parte stare?

Gli studenti sbagliano, però hanno ragione.

Ho pensato questa cosa (leggete fino in fondo please, argomentazioni complesse e non riconducibili alla categoria “tifo”)

Penso che gli studenti stiano sbagliando a prendersela con l’alternanza scuola-lavoro nel caso specifico della morte di Lorenzo Parelli. Ho insegnato due anni in un Istituto Tecnico che aveva i laboratori con l’amianto e come insegnante di Macchine avrei dato oro per far visitare un’azienda con macchinari moderni ai ragazzi e magari per dare loro l’opportunità di imparare ad usare quelle macchine e la tecnologia a loro collegata.

Direte: il problema sono i pochi fondi dati alle scuole. Non ci piove, ma nessuna scuola avrebbe potuto dotarsi di una tecnologia avanzata con i salti che ha fatto l’industria (robotica, controllo numerico, etc), quindi se me lo chiedete vi dirò sempre che per specifici corsi di studio la permeabilità tra studenti e aziende non solo è una cosa buona, ma è una cosa giusta.

Ai tempi in cui mio padre era un giovane ingegnere i periti tecnici dal punto di vista pratico davano le piste ai giovani usciti dall’università. Ora non è più così.

Quella mastodontica perdita di professionalità è una delle maggiori cause di disoccupazione, di salari bassi e anche, consentitemelo, di sicurezza sul lavoro. E se me lo chiedete vi dico che lo Stato per primo abdica alla formazione in quelle scuole mandandovi spesso gli scarti (tanto l’italiano non serve, etc…come non serve??? non dobbiamo costruire lavoratori, ma formare cittadini consapevoli professionalmente, ma anche culturalmente)

Va ritrovata la forma affinché la formazione tecnica (parlo solo di quella perché quella conosco) sia aggiornata, di altissimo livello, affiancata dalle materie meno professionali nel modo corretto e ovviamente protetta.

Ecco veniamo alla protezione. Quello che ha ucciso Lorenzo Parelli (fermo restando che a deciderlo deve essere la magistratura e speriamo in tempo brevi) non è l’alternanza scuola lavoro, ma forse (il forse è d’obbligo perché ho quasi 46 anni e non 18) la sicurezza sul lavoro.

Ecco: se le manifestazioni dei ragazzi, prima ancora che superare le distorsioni dell’alternanza scuola-lavoro (che ci sono e negarlo sarebbe da idioti) riuscissero a sollevare l’attenzione sull’enorme strage di morti sul lavoro per mancanza di controllo delle norme di sicurezza, ben vengano con tutta la forza che serve.

La sicurezza costa. Costa ovunque. Costa in edilizia, costa in carpenteria pesante, costa in un ristorante. Questo però (dico sempre) ricordiamocelo sempre quando paghiamo, quando pensiamo di stare pagando troppo e soprattutto quando paghiamo troppo poco.

Speriamo bene.

Sono dell’idea che serva un o una presidente della Repubblica con una storia intonsa. Con un comportamento pubblico e privato (di lui e dei suoi antenati e discendenti) che non lasci aperti spifferi per indebolirne l’autorevolezza. Il fatto che questa carica sia una carica non votata dal “popolo” e quindi in teoria (molto in teoria) debba essere slegata dalle emozioni e dai populismi che ogni tanto si abbattono sull’Europa dovrebbe essere un fatto positivo mentre in questi giorni sembra un fatto negativo perché appare sempre più evidente che lo sforzo di questa classe politica nel definirne il profilo ha molto a che fare con i propri destini: non andare al voto adesso e immaginare qualcuno che nel 2023 non ponga veti, pensiamo a Mattarella e al suo giustissimo veto su Savona. Secondo voi a parte Draghi e Mattarella chi sarebbe in grado di mettere un veto come quello su Savona? Casini? Casellati? E soprattutto chi vuole tenere Draghi a Palazzo Chigi in un anno di campagna elettorale è consapevole di tenerlo a camminare su un campo pieno di mine? Buongiorno Italia. Speriamo bene.

Cosa capisco delle linee guida europee per un Europa più uguale (e più sicura)

Cosa capisco dalle linee guida europee.Per esempio.Invece di dire Maria e John sono una coppia internazionale (cioè di due nazionalità diverse), usare nomi non solo “cristiani” visto che ormai l’internazionalità è più vasta. Sono suggeriti: Malika e Julio. Due osservazioni: Salvini traduce John come Giuseppe. Sbagliato, John si traduce Giovanni quindi sta storia del presepe, di Giuseppe e Maria è stata montata ad arte. Altra osservazione: l’esempio è specifico sulla frase “coppia internazionale”. Vale per tutti gli altri modi di dire che possono offendere: per esempio fare un corso di formazione sulle banche ed usare nomi come Abramo e Isacco. Lo fareste? Io no perché alimenterei un pregiudizio. Parlare di criminalità ed usare il nome “Salvatore”. Parlare di terrorismo ed usare il nome Mohammed. Capite di cosa si tratta? Di contestualizzare i nomi per evitare il diffondersi di pregiudizi su documenti internazionali. Per evitare di fare brutte figure, di discriminare, di peggiorare i rapporti tra Stati o tra l’Europa e il resto del mondo. Direste Buon Natale ad uno Sceicco? O spedireste una cartolina alle istituzioni di Israele con “Buon Natale”? Non so voi, io no.Cosa avete che non va con il parlare meglio per generare meno odio possibile?

LGBTQI+: generazioni a confronto, molto diverse.

C’è una cosa su cui sto riflettendo da giorni e che ho detto qualche giorno fa alla bella giornata di lancio de Le Contemporanee (a proposito seguitele!) dopo avere ascoltato le parole di Simonetta Sciandivasci sulle nuove generazioni.


La generazione di gay e lesbiche e trans (uso queste definizioni appositamente) prima della nostra – parlo dell’Italia, ovviamente USA e UK potrebbero avere anticipato di mezza generazione – quindi chi ha oggi più di 60 anni non aveva parole per definirsi. Spesso nemmeno si autodefiniva e le uniche parole esistenti erano offese, insulti. Si diceva “frocio”, si diceva “pederasta”, si facevano addirittura gesti per non dire, per non nominare. Si “era” senza “dirsi”. Non ce ne era bisogno. Fa eccezione ovviamente quella parte di pionieri del Fuori (Enzo Cucco Tosco e Giovanni Minerba prima che mi tiriate le orecchie!)


La mia di generazione ha combattuto per definirsi. Per distinguersi. Per conquistare il diritto a “dirsi”, per uscire dalla dimensione buia ed affermare l’amore, la transizione. Forse siamo stati anche la generazione “normalizzante” che ha convinto l’opinione pubblica che gay, lesbiche e trans non erano persone disordinate che vivevano di nascosto il loro peccato. Siamo diventati genitori, famiglie, abbiamo combattuto per il “matrimonio”, sentendoci anche dire dalle punte più avanzate della generazione precedente che forse eravamo un po’ borghesi.


La generazione LGBTQI+ di oggi sta combattendo una battaglia completamente diversa. Sta combattendo per non definirsi. Per non etichettarsi. Per viaggiare attraverso le definizioni facendo scoprire a molti di noi che forse nelle definizioni che ci siamo dati e date siamo persino stretti e strette. Devo confessare che dopo un primo momento di stupore, di vertigine, è bellissimo guardare e ascoltare i giovani e le giovani di oggi in questa ricerca che non finisce.
Forse quello che osserviamo nel movimento LGBTQI+ non è una specificità della categoria, ma è probabilmente il luogo più evidente dove sta prendendo forma la differenza di queste ultime 3 generazioni post-belliche (sto sempre parlando solo d’Italia). La mancanza di riferimenti e di ideologie che per noi è stata immensa nostalgia per quello che non avevamo potuto “sperare” come i nostri genitori, per i ragazzi e le ragazze di oggi è libertà. Ed è tutto molto bello. Anche se a molti fa tanta paura.