Né silenzio, né rumore. Bruciamo tutto parlando coi nostri figli.

Quello che ci fa paura più di tutto di questa cosa di Giulia Cecchettin è che, in questa storia, ogni alibi discriminatorio per “non vedere” è stato abbattuto. Giulia e Filippo non sono stranieri. Non possiamo dire che provengano da una cultura diversa (leggi: inferiore). Non sono di classe sociale povera (leggi: inferiore). Hanno studiato, non si sono fermati alla terza media. Sono giovani, non possiamo dire “vedi le nuove generazioni sono diverse”. Sono giovani quindi non sono vecchi, non si sono consumati in litigi, in frustrazioni, in fallimenti di desideri giovanili. Lei non stava con un altro. Lei non lo aveva eliminato dalla sua vita. Giulia Cecchettin ci ha messo davanti l’esercizio accademico del possesso senza darci una via di fuga.
Un pertugio che ci salvasse da doverci guardare allo specchio.
Ci ha svegliato e ricordato che la cultura patriarcale, il possesso malato, l’ossessione che oggettivizza è più sottile e ingombrante di tutti gli alibi che di solito elenchiamo per dire: a noi non succederebbe. Mio figlio non lo farebbe mai. Mia figlia è salva. È tutto ok. L’esercizio che dobbiamo fare non è la criminalizzazione del maschio, di tutti i maschi. Io questa cosa scusate non riesco a farla anche se poi lo faccio quando parlo con gli amici maschi.
L’esercizio che dobbiamo fare parlando con le nostre figlie, coi nostri figli è l’autopsia dei sentimenti. Parlare dei sentimenti. Viviamo l’epoca delle emozioni concesse forse più di ogni altra epoca e spesso ci dimentichiamo la cassetta degli attrezzi per gestirla. Il destino ha voluto (e forse non è un caso) che l’epoca delle emozioni sia anche l’epoca in cui le donne sono più emancipate (non è un caso certo).
E va gestito tutto questo. E non si fa nel silenzio. Se in ogni famiglia il 25 novembre si spegnesse la tv, si spegnessero i cellulari e si parlasse? Tra di noi. Coi figli. Va spezzato il silenzio intorno alle emozioni, un privilegio di noi occidentali senza guerra da decenni: avere il tempo e lo spazio di farlo.

L’errore gravissimo di chi giustifica i crimini di guerra.

Leggo in giro tanti post, editoriali, commenti sul fatto che i crimini di guerra siano necessari per sconfiggere definitivamente Hamas.

Gli esempi portati a conforto di questo tentato sillogismo aristotelico sono le bombe su Dresda (quel bombardamento fu un’inutile carneficina nell’economia della seconda guerra mondiale) o peggio l’uso delle atomiche su Hiroshima e Nagasaki a guerra sostanzialmente già finita.
Leggo che secondo questi fenomeni il Giappone grazie alle atomiche ora ha una ricca democrazia!

Cari fenomeni che pensate di saperne una più del diavolo, che pensate che noi siamo degli ingenui che non capiscono che “la guerra è guerra”, anche se i capi ufficiali di Hamas verranno fatti fuori uno ad uno – ieri sullo stesso giornale due articoli affiancati che descrivevano il ridicolo di questo ingenuo pensiero: mentre Israele li cercava a Gaza City uno di loro era in giro non so in quale paese a fare incontri! – dicevo anche Israele li trovasse e li facesse fuori tutti, un’intera generazione di sopravvissuti sarà cresciuta nell’odio e rigenererà odio.

Ovunque nel mondo.

Perché il terrorismo è figlio dell’odio. Si nutre di quello. L’unico modo per sconfiggere Hamas è togliere la causa per cui parte della popolazione palestinese lo appoggia.

Definire uno Stato Palestinese indipendente e rispettare le convenzioni internazionali.

Hamas fa schifo. Così farà ancora più schifo. Non lo si sta distruggendo. Lo si sta rafforzando per avere sempre più alibi a Gaza. Fermatevi.

Di bandiere, di Pride, di armi e di Ucraina.

“Abbassa l’arma, Garibaldi. – disse forte Milton. – Sono un partigiano badogliano. Vengo a parlare con il tuo comandante Hombre.”

Abbassò impercettibilmente il moschetto e gli accennò di avanzare. Era poco più che un ragazzino, vestito tra il contadino e lo sciatore, con una vivida stella rossa nel centro del mefisto.

“Tu devi avere sigarette inglesi, – disse per prima cosa.

[…]

“Quella è la carabina americana, eh? Che calibro?”

“Otto.”

“Allora i suoi colpi vanno bene per lo sten. Non avresti qualche colpo da sten sperduto nelle tasche?”

“No, e poi che te ne faresti? Non hai lo sten.”

[…]

“Io, – disse ancora il ragazzo, – se avessi la scelta che hai avuto tu, prenderei lo sten. […]”

Da giorni mi rimbomba nella testa questo passaggio di “Una questione privata” di Beppe Fenoglio. Milton sta cercando un prigioniero fascista tra tutte le brigate sulle colline delle Langhe per proporlo in cambio ai fascisti che hanno preso Giorgio, il suo amico-fratello-rivale. C’è dentro tutto. C’è la resistenza di un popolo. Gli americani che danno armi. I partigiani di ogni colore che vogliono quelle armi per difendersi. Ci sono momenti in cui si deve smettere di fare distinguo sul micro (leggete qui). Ci sono momenti in cui non possiamo dimenticare che la Russia sta attaccando l’Ucraina in modo dichiarato non solo per prendersi dei territori, ma anche per la sua adesione ai valori occidentali. E che dentro quei valori occidentali c’è anche la libertà della nostra comunità queer (parola che vorrei usare per includere la nostra sigla LGBTQI+) che sta combattendo per il proprio paese e per i propri diritti. Come possiamo non essere dalla loro parte? Come possiamo non portare ai Pride anche la loro bandiera? Non siamo nati da una ribellione? Non siamo nati da una reazione alla polizia che voleva sopprimere la nostra identità? Quella guerra di Resistenza non è anche nostra? Possibile che siamo cristallizzati in una narrazione da guerra fredda e non ci siamo accorti che il mondo è andato avanti? E possibile che esprimere solidarietà al popolo ucraino ci faccia passare subito tutti come aderenti ad un polo (quello americano) dimenticandone le malefatte in Sudamerica e in giro per il mondo? Nessuno dimentica nulla. Il mondo è complesso e ogni volta dobbiamo decidere da che parte stare. Come i partigiani badogliani e rossi.

Berlusconi ha venduto gli italiani agli italiani.

Nel 2003 io e G. facemmo il nostro viaggio di laurea attraversando l’Europa in macchina, fino in Danimarca. Sui finestrini della nostra macchina appendemmo un cartello in 4 lingue in cui ci scusavamo per le frasi di Berlusconi che pochi giorni prima aveva offeso Schulz (all’epoca presidente del gruppo S&D europeo), dicendogli che avrebbe bene interpretato la parte del capò nazista. Eravamo furibonde. Gli europei in autostrada, nei parcheggi ci salutavano e ci esprimevano solidarietà.

Berlusconi è stato senza ombra di dubbio un ottimo venditore, un perfetto piazzista: ha venduto gli italiani agli italiani. Un auto-acquisto, la cosa più redditizia sulla piazza. E sì, non ce lo siamo comprato politicamente tutti (per fortuna), ma culturalmente lascia un segno profondo, più profondo di quanto pensiamo.

Vendendo questo prodotto di successo ha determinato anche il campo avverso (politico, intellettuale, televisivo) che non ha saputo definirsi se non in sua funzione. Da 30 anni la sinistra non ha saputo ri-trovare qualcosa che la definisse in modo autonomo, qualcosa che generasse simpatia e identità come lui è riuscito a fare (ripeto: non con me, ma negare che sia accaduto è un errore storico). Nel momento in cui il Muro crollava ridefinendo gli equilibri, Berlusconi è riuscito a ricostruirlo in Italia agitando il pericolo comunista nell’unico Paese dove quel pericolo non c’era mai stato e dove il PCI dal dopoguerra al crollo del Muro era stato sempre (almeno sulla carta e sulle cose grosse del Paese, non mi imbarco sulle posizioni internazionali tipo invasione dell’Ungheria che fu l’ERRORE) dalla parte giusta della Storia (Togliatti che rimanda a casa i suoi dopo l’attentato, il pugno duro con le BR, etc). Avremmo dovuto definirci, qualcuno ci ha provato (malissimo). Sicuramente il livello della classe dirigente (semicit.) non ha aiutato. Sembrava che non gli voleste nemmeno bene agli italiani. Ed era lì che vi batteva. Dove voi li snobbavate, lui li amava o fingeva di farlo. E gli riusciva.

Non lascia nulla di politico (nessuna riforma anche quelle che avrebbero avuto senso se non le avessimo vissute ad personam) se non una destra immatura, illiberale e confusa ma forte di iconografie nostalgiche che malgrado il suo europeismo (come dice Prodi l’unica cosa in comune) non è riuscito a far crescere forse per troppo protagonismo e scarsa generosità. Forza Italia non è mai stato un partito, si è dissanguato fino a diventare una piccola corte, ora finirà in rivoli che sicuramente ci stupiranno. Politicamente era già archiviato.

Lascia molto di culturale. Ahimè. Drive-in, Non è la Rai, le sue idee sulle donne, una tv svuotacervello che ci ha disabituato al confronto, alla riflessione, al dialogo.

Lo abbiamo combattuto facendo il tifo per i magistrati che non sono riusciti a cavare un ragno dal buco se si considera la quantità di avvisi di garanzia. Il giudizio storico per chi ha letto bene le carte, per chi ricorda tutto dalla tessera P2 1816, lo stalliere, la legge sulle tv di Craxi, etc resta.

Mia madre.

Ho riscoperto mia madre con grande e grave ritardo. Quando, per cause naturali o di forza maggiore, tutti i maschi della famiglia hanno terminato di essere più importanti di quel “noi”.

E non è questo l’incipit della storia, ne ho scritti molti e terminati pochi, chissà un giorno troverò l’inizio giusto.

Ho scritto tantissimo di lei negli anni del distacco che sono stati lunghissimi. Rileggendomi, io che pensavo di essere ossessionata da mio padre, mi rendo conto che il mio vero filone narrativo e produttivo è, in realtà, lei. Mia madre.

Mia madre è nata in una casa per ragazze madri. Fu strappata a sua madre in fasce per crescere in una famiglia più consona (quella paterna). Tanti anni in collegio, un collegio di Trastevere. La comunione da Padre Pio di cui i miei bisnonni erano amici. Una madre conosciuta, inseguita, persa, rifiutata, amata, odiata che è stata tanti anni in Australia e che sbucò a casa nostra quando io avevo 7/8 anni in formato di “zia” quando la sua figlia maggiore avuta sempre da ragazza madre e prima di mamma (motivo per cui mio nonno ventenne andava con lei, considerandola libertina e non pericolosa) morì di una terribile malattia. Me la ritrovai in casa. Scoprii il mistero perché un mio compagno scambiò mia nonna per mia madre e mi chiese come mai mia madre fosse così invecchiata. Le guardai: erano identiche, di una bellezza magra, appuntita, forse figlia delle origini ungheresi.

Mia madre sposa senza padre, il quale ricomparve solo la domenica in cui nacqui.

Mia madre spaventata di essere madre, in piena Pianura Padana dove la malattia sempre covata (come dice Emilio Vercillo It-its abbiamo tutti un punto di rottura, ma magari non ci sono mai condizioni estreme per scoprirlo, ma uno schizofrenico è una 500 lasciata nel deserto) esplose con ricoveri e crisi e periodi infiniti nel buio di una stanza dove ogni tanto mi affacciavo per sentirmi dire di non bere acqua ghiacciata se avevo appena finito di giocare a calcio. Una malattia negata da tutti. Scambiata per pigrizia a volte. Curata con violenza.

Mia madre colpevolizzata perché ero un maschiaccio. Io che disegno alberi sui fogli. Mia madre abbandonata. Sì, anche da me e se non siete mai stati feroci con qualcuno che dovreste amare vi invidio.

Mia madre che dorme sul sagrato di una Chiesa. Mia madre ricoverata.Mia madre che dopo anni mi salva, tira fuori qualcosa che nessuno sa, dice le cose giuste al momento giusto e aiuta me nella mia fuga che è un’altro film fatto tutto di donne sia dalla parte giusta che dalla parte sbagliata (ah, qui non troverete nulla sulla sacralità del femminino).

Ho avuto tante madri mentre cercavo la mia, sono grata a tutte.

Mia madre no. E’ stata molto sola. E’ stata poco amata. Un solo abbraccio, un solo bacio le cambia l’umore per settimane io sto imparando di nuovo a farlo, non è facile. E’ tutto complicatissimo.

Oggi vive nella grande casa di famiglia che abbiamo messo a posto dopo la morte di mio nonno e che nel 2018, con lei dentro, cascava a pezzi.

Oggi è un grande gineceo (anche piuttosto rainbow), dove c’è un re pescatore che porta il pesce, dove i nostri amici vanno e vengono, dove mia madre tiene il conto delle coppie e dei figli e chiede spesso dei maschi come se fossero più fragili e tutte le ragazze di questa famiglia non fossero tanto brave ad occuparsene. Fa l’elenco dei nomi e li sgrana sui rosari, quando qualcuno sta male glielo diciamo così si sente utile e ci ricorda tutti nell’infinita nenia della preghiera. Io smadonno San Benedetto, dico che se lei ORA io LABORO e le nascondo i libri del tizio perfido di Radio Maria.

E per la prima volta dopo più di 40anni quando non la vedo per un po’ mi manca. Non giudicate, ripeto: è complicato.

Io me li immagino in Consiglio dei Ministri.

Io me li immagino in Consiglio dei Ministri…si guardano in faccia e rabbrividiscono davanti ai dossier importanti: il PNRR, la precarietà, le infrastrutture, le perdite idriche.

Allora uno, magari il più scemo fa: distraiamoli, facciamo un piano, da domani andiamo tutti in TV a dire le minchiate più assurde, ma grosse, eh. Così nessuno ci viene a chiedere conto delle cose serie.

E tutti: ma sì dai che figata, così ci divertiamo anche un po’ che qua due palle. Un po’ come i bulli di scuola che decidono di andare a rompere le scatole al diverso di turno, così per passatempo.

E così: lettere di Mussolini goliardiche, le nate dopo il 2000 sono tutte t***, la maternità surrogata è come la pedofilia, ma voi che scappate da Siria e da Afghanistan non conoscevate i rischi della traversata? e infine i genitori adottivi spacciano come propri i figli.

Perché devono per forza averlo deciso a tavolino, non è possibile che siano davvero così idioti, così fascisti, così brutti, così violenti, così cattivi, così anaffettivi.

“la vita di chi resta” di Matteo B. Bianchi

Ho appena finito di leggere “La vita di chi resta” di Matteo B. Bianchi.

Per la verità più che leggere un libro mi è sembrato di divorare un pezzo dell’autore, come un cannibale, con lo stesso sguardo guardingo che avrei avuto se avessi compiuto un atto tale in pieno giorno e in mezzo alla strada.

Mi è sembrato, malgrado autorizzata dall’autore, di invadere in maniera irrimediabile la sua intimità e non riuscivo a staccarmi dal suo dolore, dal suo “ecco qua, quello che ho dentro”, ecco qua la vita di chi resta.

Mentre lo leggevo mi sono ricordata di avergli scritto proprio circa 20 anni fa (ma ripescando nelle vecchie mail non ho trovato nulla, solo uno scambio con la mia casa editrice qualche anno dopo che voleva metterci insieme in un non mi ricordo qualche evento). Era quando cercavo goffamente qualcuno che si filasse i miei libri ed ho un vago ricordo di esserci rimasta male, ma chi se ne frega. Chissà che aveva in testa lui in quel periodo e quando dovevo essergli apparsa molesta io.

MBB, mi piaceva allora dopo avere letto “Generation of Love”, sono stata contenta nel 2013 di essere con lui nella raccolta “Le Cose Cambiano”, un progetto per ISBN nato dall’americano It gets better di Dan Savage dopo un’ondata di suicidi del 2010 di ragazzi omosessuali.

Mi piace oggi, MBB, spogliato nudo davanti a tutti noi a farci le boccacce, come uno a cui dopo “tutto questo” non frega davvero niente di quello che possiamo pensare.

Penso che MBB sia riuscito a strappare dal proprio dolore personale un pezzo di “quel che resta” da far diventare universale, da lasciare a terra – come Pollicino – per chi dovesse passare per quella strada, la strada di chi rimane quando qualcuno di così vicino decide di andarsene.

Le sue mani che incontrano quel corpo appeso nel buio, lui che parla con il figlio di S., lui che piange, lui che si masturba pensandolo, dopo. Lui che si chiede quando è il momento di dirsi scrittore.

Grazie MBB anche se mi viene da scusarmi per averti letto e so che è assurdo. Ma grazie.

Il Congresso del PD: dalla lotta nel fango al torneo di bocce.

Il congresso PD sembra (almeno sulla carta, ma anche nelle chat) la riproposizione (con solo maggiore frammentazione) delle stesse dinamiche degli ultimi 12 anni e, come ripeto in modalità Cassandra, i delegati li decideranno i potentati locali, debitamente divisi dove fa più comodo circolo per circolo a meno che il/la candidata/o segretario/a non faccia un lavoro di mappatura serio e profondo (che equivale a fare un partito davvero, ahem).
Serve una discontinuità totale e per avere discontinuità ci deve essere aggressività sia politica che interna. Mi spiace doverlo dire ma l’unico vero congresso del PD, ad oggi, sembra essere stato quello dell’inverno 2012 in cui volavano coltelli, colpi bassi, insulti, diversità totale di vedute e che poi nel 2013 prese il 40% alle Europee (anche se dopo un altro laconico congresso in cui chi aveva fatto eleggere Bersani nel 2012, fece eleggere Renzi nel 2013).

Ma era un partito vivo dove ci si scornava a tutti i livelli. (poi ucciso brutalmente dallo stesso che lo aveva rivitalizzato per eccessiva, diciamo, fretta)

Oggi mi sembra più un torneo di bocce.

Maria Antonietta e l’aborto.

Le ragazze (e i ragazzi) manifestano. Sono tornate a manifestare. Sono, come eravamo tutti noi, dure e pure.

E quindi cara Laura Boldrini ci sta che ti contestano, non a te in quanto te, ma in quanto rappresentante di un mondo che sentono lontano (mi pareva che domenica questo messaggio fosse stato fortissimo e chiarissimo) che sentono lontano dalla loro generazione, lontano da alcuni ceti sociali!

Liquidare le ragazze che chiedono che la 194 trovi applicazione in tutte le regioni dicendogli di farsi rappresentare da Meloni è sbagliato. E’ esattamente il motivo per cui non vi abbiamo votato.

p.s. Quando Meloni parla di 194 dicendo che la vuole applicare meglio aiutando le donne che NON vorrebbero abortire ma lo fanno per condizioni economiche, coglie (dalla sua parte ovviamente e solo su un pezzo della legge) che il tema della 194 e dell’accesso all’aborto è anche un tema di classe.

Lo fa dal suo lato, dimenticando l’altro lato: il diritto ad abortire se si vuole abortire senza affrontare un calvario fisico, logistico e psicologico.

Se la sinistra non rivendica la difesa di entrambi i diritti: abortire e non abortire, che sinistra è? Quella che se ne va applaudendo le manifestanti come Maria Antonietta che consigliava le brioches?

Tornare a caccia per tutti.

Mi sembra che oggi la destra abbia ancora un fortissimo scenario evocativo che pesca a piene mani da narrazioni eroiche (vedi la fascinazione – errata – per Tolkien che paragonava Sauron a Hitler per dire) e a ritualità collettive che alimentano il bisogno di appartenenza ad una collettività. In qualche modo la tradizione popolare e comunista italiana radicavano quello scenario nella Resistenza che però nel tempo (ahimè) si è esaurito perché si è in qualche modo istituzionalizzato togliendovi la parte ribelle ed anti sistema. In qualche modo l’uno vale uno del M5S ha restituito a qualcuno quel senso di far parte di un gruppo (blog) ribelle. La stessa Leopolda è stata il rifugio per chi cercava una casa dove trovarsi “contro” il sistema (in poco tempo poi il sistema l‘ha occupata e azzerata).
Ecco una delle cose che va trovata è un’identità culturale collettiva che unisca il “nostro” mondo ma che non sia fittizia (il leader macho di turno) e che sia panorama di un futuro diverso da costruire non per noi stessi presi individualmente o per il nostro nucleo ristretto. Serve un orizzonte che ci tenga uniti, che ci faccia pensare che staremo bene se staremo bene tutti, che tenga insieme, che costruisca solidarietà sociale, sguardo al benessere di tutti come benessere primario. Non un’ideologia, ma una visione che tenga insieme. Tenere insieme. Ricucire. Alla fine è ciò che serve. Siamo dispersi ognuno a caccia del proprio bonus, della propria irpef, del proprio. Dobbiamo cominciare a cacciare per la comunità.

La meraviglia.

Questa estate siamo andati a salutare S. , prima di partire. Aveva il muso lungo e alla fine in inglese mi ha detto che il suo unico desiderio era rivedere T. che aveva incontrato nella precedente casa famiglia.

S. ha 12, forse 13 anni. Viene dalla Nigeria. Ha fatto il viaggio fino in Libia, è stato in carcere, ha fatto la traversata in nave.

T. ne ha 11 di anni, è italiano e ha probabilmente “fatto” un altro tipo di traversata. S. e T. sono stati insieme in casa famiglia per pochi mesi, poi S. è stato spostato in una casa famiglia più adatta alle sue esigenze di crescita e formazione.

Gli abbiamo promesso che avremmo organizzato questo incontro.

Quando S. e T. si sono visti si sono abbracciati. Una cosa breve, molto maschia ed adulta (ma piena di infinita tenerezza che ovviamente noi adulti tutti a piagne) anche perché tutti noi stavamo sul piazzale a guardare, ad assistere increduli a questa storia di amicizia tra bambini come se fossimo ad un Safari a guardare quanto sono buffe le giraffe o come allattano i leoni. Come se i bambini della nostra specie fossero un’altra cosa, come se ci fossimo dimenticati della potenza delle nostre emozioni di bambini. come se ci fossimo dimenticati anche i libri che abbiamo letto dai ragazzi della via Paal a Pollyanna a Remì, ad Heidi, all’Amico Ritrovato, Piccole Donne, Peter Pan. Eppure, dico, se ci siamo dimenticati di noi da bambini, come abbiamo potuto dimenticare anche tutte le cose lette? Come se fossero favole, come se non ci credessimo più una volta diventati adulti.

Forse spesso noi adulti non valutiamo adeguatamente la forza di quei sentimenti, la sottovalutiamo (Edoardo Tagliani me lo hai ricordato con la storia del Pirata traslocante che si è dichiarato il più adatto ad accogliere il nuovo compagno ucraino perché ne poteva capire – secondo lui – il trauma da sradicamento).

Ma soprattutto la meraviglia di due bambini feriti che invece di leccarsi le ferite e chiudersi, si sono accolti, sostenuti (S ha detto proprio cosi: “quando sono arrivato non c’era nessuno, c’era solo T a starmi vicino.” T…undici anni), hanno superato lo scoglio della lingua, del colore della pelle, della cittadinanza. Tutte le nostre sovrastrutture, le nostre Babilonia: monnezza.

p.s. non posso nominarle per ovvi motivi, ma grazie (duemila volte) alle due case famiglia che hanno reso possibile l’incontro, che lo hanno organizzato, che stanno crescendo questi due giovani uomini al meglio possibile per le condizioni al contorno.