Le facce di Roma. Dalla Testa del Moro a due occhi pesti.

Sono giorni che ho un pensiero che mi tormenta e non riuscivo a metterlo nero su bianco perché non ero in grado di afferrarlo del tutto. Tutto è iniziato una mattina della settimana scorsa, in viale Emanuele Filiberto. La faccia di un bambino, probabilmente straniero, mi ha fulminato dal finestrino della macchina. Viaggiava su una vettura a noleggio con conducente, la polo nera, da piccolo adulto. Stava appoggiato al bordo del finestrino, chiuso e guardava in alto. Poi ha visto che lo osservavo e ci siamo fissati al semaforo. Non ha fatto una piega, non si è intimidito come fanno spesso i bambini quando li guardi, andandosi a rifugiare tra le gambe della mamma. E’ durato molto quel dialogo tra occhi, perturbato soltanto da un lieve reciproco movimento delle labbra. Mi è rimasto in testa come un tarlo musicale quello sguardo, quella posa anomala, curiosa, attenta sulla città, ai suoi tetti e non rattrappita sopra una playstation.

Ho cominciato a spegnere l’aria condizionata. Ad aprire i finestrini, rompere quell’isolamento capsulare. Sbirciare più del solito, anche nei tragitti obbligati più simili al trasporto che al viaggio. Roma è un formicolare di volti le cui espressioni sembrano un palazzo del settecento da restaurare, che si addolorano alla fermata dell’autobus. Sforzano i tendini per spingere un carrello. C’è un sacco di gente che spinge carrelli a Roma, ovunque. Sulla Magliana. Sotto il ponte di Via Portuense. Sul Lungotevere.

Poi ieri mattina. Domenica. Via Gallia. La città sta per tornare alla sua piena normalità. Sono le 10. Al semaforo di Via Gallia c’è un uomo seduto contro la vetrina di un negozio chiuso. Piange. Scatta il verde, andiamo oltre.

Torno indietro, dopo venti minuti. Scendo. Mi faccio anticipare da delle monete, come se pensassi che siano un biglietto da visita, un lascia passare umanitario, il consenso a favellare domande, a chinarmi sul piano orizzontale della democrazia che non abbiamo. Tende le mani, li prende.

“Chi ti ha ridotto così?” E non lo dico per le lacrime. Quell’uomo, straniero, non sta soltanto piangendo, lo hanno pestato di botte a sangue. E non ha lacrime di dolore le ha di piena, compita umiliazione. E’ giovane. Non riesce ad aprire gli occhi tumefatti.

“Sono caduto.” Risponde.

“Non è vero, ti hanno picchiato.” Insisto e faccio il gesto cinematografico di un pugile.

“Caduto.” Ripete.

Chi è stato. Amici ubriachi? Italiani annoiati? Si è pestato da solo per la disperazione? Ha fatto uno sgarbo a qualcuno?

Fatto sta che a Roma, in pieno ridosso dal centro c’è un uomo a terra pestato a sangue che piange.

La sua faccia somiglia a quella della Testa del Moro, è come una statua presa a sassate. Ogni persona che vive in questa città ha la stessa dignità di un’opera d’arte.

Non possiamo concederne il vilipendio, l’abuso. Oggi hanno preso l’uomo di 52 anni che ha confessato di avere gettato il sasso contro la Testa del Moro per attirare l’attenzione. Alemanno lo ha definito un criminale anche dopo la confessione. Un disperato. La soluzione fascista è sacrificarlo in modo esemplare. Non è investire tempo e risorse ed occhi per ridare a Roma una dignità diversa, una cultura degli occhi, che si accorgono, guardano, vedono. L’uomo che ha buttato la pietra in faccia alla statua se l’è presa con la città, con rabbia. Non con una moglie, con una donna, con un migrante. Ha simbolicamente preso a sassate l’entità giusta. La stessa città lo ha guardato fare e non ha detto nulla, con il suo stesso stupore. E’ questa la malattia. Non il sasso. La malattia è il grado di cecità che hanno gli occhi di tutti noi. Lo spessore delle capsule in cui abbiamo raccolto la solipsia dell’individualismo sfrenato. Siamo ospiti a casa nostra. Più ancora di chi è straniero e non ha casa. La città non è più nostra. Dobbiamo rifare la città. Rifarci gli occhi. Tornare a guardare i tetti di Roma e gli interstizi tra i sanpietrini.

Non voglio giustificare un atto vandalico. Ma un conto sarebbe stato un gruppo di ventenni ubriachi ed incoscienti. Un conto la disperazione di un singolo. Lo so. Non si giudicano le intenzioni, ma gli atti. Per una volta concediamoci di ascoltare i motivi. “Puniamolo” con lavori socialmente utili, restituendo a lui e alla città una relazione.