Noi o Tik-Tok?

Non è la mia materia, quindi quello che scrivo qui sotto sono dubbi e non affermazioni.

Non so (appunto) se sia giusto prendersela con Tik-Tok o con altri social se i nostri giovani partecipano a delle sfide che possono risultare mortali.

Ai nostri tempi si temevano i cartoni animati giapponesi, ricordo l’opposizione che le famiglie radical-chic mettevano in campo cercando di spiegarci quanto fossero diseducativi e ricordo benissimo quanta poesia vi ho trovato dentro, quanta nostalgia, quanta cultura.

Ricordo bene da adolescente di essermi sdraiata sulla striscia di mezzeria sull’ardeatina di notte con i miei amici di provincia (forse dopo avere visto Donnie Darko) o di avere viaggiato su una Fiesta in quasi 11 persone perché solo uno di noi aveva la patente. Certo era un tempo senza video da diffondere, solo cose da raccontare il giorno dopo.

Ricordo anche bene che ogni tanto moriva qualcuno per qualche “gara” o i ricordi delle storie di naja in cui ogni tanto qualcuno ci lasciava le penne per un gioco da branco esagerato.

Probabile che ai tempi dei nostri nonni ci si sfidava a guadare fiumi o arrampicarsi da qualche parte e qualcuno ci avrà sicuramente lasciato le penne per dimostrare “qualcosa”.

E cosa dire di chi muore sfidando la natura, la montagna, il mare.

Dunque la domanda è: siamo noi o è tik-tok? Siamo noi o è Donnie Darko o cosa diamine fosse. Siamo noi o i cartoni animati giapponesi? Con questo non sto certo dicendo (ripeto: ho solo dubbi) che i ragazzi, i bambini vadano lasciati in pasto alla qualsiasi.

Esiste un limite che è dato dalla consapevolezza. Noi ci siamo sdraiati sull’Ardeatina e ci siamo alzati dopo 1 minuto, prima che passasse qualsiasi macchina e su un punto dove si vedeva bene che saremmo potuti andare via di lì ben prima che arrivasse qualcuno. Giusto per dire di averlo fatto ma senza farlo. E forse quelle battaglie dei nostri genitori sui cartoni giapponesi sono comunque servite a farceli guardare con diffidenza e quindi a discernere alcune cose, alcune violenze.

La domanda è, anche rispetto alla notizia che sono aumentati i suicidi e anche l’autolesionismo tra i ragazzi: ma noi adulti ci parliamo con questi ragazzi? Lo troviamo ancora il pertugio attraverso il quale arrivare a loro? Abbiamo tempo per loro? Siamo capaci di farli essere diversi dalla massa (per esempio non dargli il cellulare fino ad una certa età) o cediamo all’istinto di massificazione per non avere rotture di palle?

Perché Calenda (e Minniti) sui migranti si sbagliano (e anche sulla globalizzazione)

Quando leggo che i migranti non arrivano più e qualcuno del PD rivendica che il merito è di Minniti (per dire che non è merito di Salvini) non posso fare a meno di pensare a quanti ne muoiono nel Mediterraneo, a quanti sono nei lager libici di cui ormai abbiamo prove evidenti (che siano lager illegali o che siano lager di stato se in Libia di stato si può parlare) e di quanti si stiano incamminando dai loro paesi per arrivare in Europa. Per inciso quello che dice Calenda è vero. 

Dopo il tweet di ieri di Calenda sui migranti difficilmente integrabili e sugli arrivi diminuiti grazie a Minniti  mi ero ripromessa di affrontare il tema con un approccio diverso.

Siamo in un momento molto complicato rispetto alla questione migranti che sta apparentemente dividendo l’Italia, ma che in realtà vede i due fronti contrapposti non incontrarsi mai sullo stesso piano.

Mi spiego meglio.

  1. c’è un pezzo di Paese razzista che sta emergendo grazie alla violenza verbale che parte del governo sta scatenando
  2. c’è un pezzo di Paese che non si considera razzista ma che ritiene che i migranti siano troppi, che vi sia un’emergenza e che gli sbarchi vadano fermati, che alla fine le ONG facciano il gioco dei trafficanti. In questa parte di Paese si è andato collocando anche un bel pezzo di PD, tutta una schiera di personaggi che si sente “razionale” e “intelligente” davanti ad un effettivo (secondo loro) problema
  3. c’è un pezzo di Paese dichiaratamente antirazzista che appoggia e finanzia le ONG che vanno recuperano i migranti in mare e che non riesce a convivere con la propria coscienza pensando di non fare nulla per salvarli, ma che spesso non si concentra su cosa accade dopo

In realtà le 3 categorie di cui sopra, come sempre, sono molto fluide e più complesse di come appaiono. Se si frequenta il mondo senza starsene seduti solo nel proprio ambiente si scopre che spesso dietro al razzismo (come dietro all’omofobia) c’è la paura. La paura legata alla sicurezza, la paura legata alla concorrenza sleale sul lavoro (e questo vale sia per i lavoratori di bassa professionalità, ma vale anche per i commercianti), la paura legata alla diversità. Si scopre anche per esempio che la categoria n°2 è una categoria politicamente cinica (chiamiamoli i Calendaminnitiani) che ritiene che dicendo che gli sbarchi debbano diminuire in fondo si sta riconquistando un pezzo di elettorato da Salvini e che recuperandolo si tornerà al governo e si farà molto meglio di Salvini. C’è anche un pezzo nella 3 categoria che non si pone minimamente nei panni di questa maggioranza (stando almeno ai sondaggi) per cercare di capire cosa sta accadendo nel Paese. Ecco io penso che la soluzione sia solo nella terza categoria di persone (e che una volta trovata quella soluzione può: riconquistare alla ragione la categoria 2 e abbassare la presa della categoria 1).

Parliamo di questo.

E’ vero che abbiamo un’emergenza in termini di quantità? No. l’Italia ospita il 7% di stranieri NON nati in Europa e solo il 3% di nati in Europa. Per capirci: l’Olanda ne ospita il 9% di non nati in Europa e il 3.4% di nati in Europa (senza contare tutti i naturalizzati e le seconde generazioni che ovviamente sono olandesi, quindi non mi venite a dire: eh però le colonie!), la Germania l’8,8% e quasi il 6% di nati in Europa, il Regno Unito l’8,6% di nati fuori dall’Europa e il 5,5% di nati in Europa. Ripeto: senza contare chi è inglese ma viene da colonie, seconde generazioni, ecc. Mi direte: è normale, questi paesi sono molto appetibili, vanno meglio di noi, quindi è giusto che abbiano più immigrati di noi.

E’ vero che abbiamo un’emergenza in termini di migranti? Certo. E’ vero. l’Italia è stata fino a qualche anno fa un porto di passaggio. Il che significa che l’Italia, in quanto punto di approdo, riceve (riceveva) tutti i migranti a prescindere dalla loro nazionalità, religione, preparazione scolastica. Molti migranti passavano dall’Italia per raggiungere parenti già integrati in altri paesi. Molti migranti arrivati da soli e magari con livelli di alfabetizzazione bassi sono rimasti in Italia e il più delle volte sono finiti a fare i braccianti, i lavoratori in nero nelle nostre terre, nelle nostre fabbriche, nei nostri cantieri. O le prostitute sulle nostre strade. Insomma sono finiti ad alimentare una sorta di economia sommersa facendo quei lavori che gli italiani NON vogliono più fare. Aggiungo che abbiamo un enorme problema di applicazione della legge. Il tema non è se un negozio cinese evade il fisco o se un migrante compie un reato. Il tema è che gli italiani sono insicuri perché in Italia far rispettare le leggi a TUTTI sembra un miraggio.

Guardate questo è un passaggio importante. Nessun italiano vuole raccogliere i pomodori. Nessun italiano vuole pulire il culo di un vecchio. Nessun italiano vuole arrampicarsi su un cantiere edile. Nessuno per quella paga. Qui si apre tutto un mondo che coinvolge il reddito minimo e il reddito di cittadinanza. E’ tutto collegato. E’ collegato anche alla competitività. Mi spiego meglio: se io ho una fabbrica di alluminio e pago la manodopera più che in Cina sul mercato globale sono destinato a fallire. Quindi ho due opzioni: pago in nero e comunque di meno i migranti (o gli italiani se lo accettano…difficile) oppure voto un governo che mi garantisce dazi ai competitor cinesi. Queste sembrano essere le uniche due soluzioni. La destra e il PD dei calendaminnitiani vi dicono questo: la globalizzazione è un casino, ripensiamola e intanto siccome non possiamo gestire i migranti, blocchiamo gli sbarchi. Non siamo cattivi, ma è l’unica strada per salvare il nostro piccolo mondo. Anche Trump e Salvini (e Corbyn qualche sovranista di sinistra) possono iscriversi a quel partito, hanno l’unico difetto di essere maleducati rispetto ai primi due.

E’ questa l’unica soluzione? Chiudere tutto o pagare in nero la gente? Secondo me no.

Esiste un’opportunità a mio avviso e questa opportunità si chiama integrazione. Per assurdo l’Italia sta vivendo quello che gli altri Paesi hanno vissuto 20/30 anni fa solo che gli altri ne hanno approfittato mentre noi ci stiamo rotolando per terra disperati. Ci sono mestieri che gli italiani non vogliono più fare anche se sono pagati il giusto e in regola.

E’ un dato di fatto. Pensate all’appello di Fincantieri, ma basta chiedere a qualsiasi imprenditore di qualsiasi lavoro che richieda manodopera specializzata. Non è vero che in Italia non c’è lavoro altrimenti non ci sarebbe spazio per moltissimi mestieri che ormai fanno solo gli stranieri. Perché li fanno gli stranieri? Perché molti di loro vive un’altra epoca rispetto alla nostra e questo è un’opportunità reciproca. L’abbiamo vissuta anche noi emigrando all’estero o da sud a nord.

L’accoglienza in Italia è un business? Sì. Buttiamo una marea di soldi per dare un tetto e cibo da migliaia di migranti senza dare loro alcuna opportunità. Questo modello di accoglienza (che NON è un modello di integrazione se non in pochi casi) genera paura ed alimenta il razzismo.

Cosa dovrebbe fare l’Italia? Ripensare il suo modello di accoglienza. I centri di prima accoglienza siano veramente dei luoghi di riconoscimento veloce (mentre spesso sono luoghi di detenzione in cui si resta per mesi, se non per anni) e nascano piccoli luoghi di professionalizzazione e di insegnamento della lingua italiana in tutta Italia in stretta collaborazione con le aziende e gli enti pubblici. Magari che siano aperti anche agli italiani (sì, è vero, abbiamo ucciso le scuole professionali!) che volessero imparare un mestiere che poi dia opportunità di lavoro. Perché no? Stiamo perdendo (e questo certo non per colpa dei migranti) tantissima professionalità che era tipicamente italiana (la carpenteria, l’edilizia, l’artigianato, ecc) perché tutti vogliono fare lavoro d’ufficio e guadagnare tanti soldi (questo è quello che sta accadendo, è naturale che accada, perché stiamo vivendo un’altra epoca come popolo rispetto a quella che vivevamo negli anni 50/60).

Come facciamo a farlo se non lo facciamo nemmeno per gli italiani? Ottima domanda. Questa è LA domanda che dovremmo farci quando pensiamo al Paese che vogliamo. La soluzione della politica basata sul consenso immediato (l’approccio dei calendaminnitiani) è sbagliato, secondo me, perché parte da una posizione di difesa dello status quo, è una politica di resa. Serve una politica di visione che dica: i migranti in mare si salvano sempre, ma abbiamo un problema. Quel problema non si risolve chiudendo i porti o diminuendo gli sbarchi, ma si risolve ripensando il Paese. Ripensare il Paese davanti ai flussi migratori significa ripensarlo (e qui veniamo a quello che DEVE accadere) per tutti, anche gli italiani. Raccontare agli italiani che è meglio chiudersi, mettere i dazi, significa raccontare al Paese dei prossimi 3/4 anni. Raccontare al Paese che i flussi migratori sono la storia dell’universo, che vanno governati, che il Paese deve ri-dotarsi di un sistema scolastico professionalizzante, che la giustizia e il rispetto delle leggi devono essere veloci ed efficaci per TUTTI, che vanno individuate soluzioni e cambiamenti profondi che portino beneficio a tutti è raccontare al Paese i prossimi 20/30 anni.

 

 

 

Questi mondiali femminili

Questi mondiali femminili mi stanno evocando un sacco di ricordi.
Quando ero piccola vivevo per il calcio. Ho sognato di giocare a calcio dai 3 ai 10 anni e ci giocavo ogni giorno per strada, sull’asfalto, in un piccolo paese del bergamasco.
A torello, a squadre, a gara di palleggi.
Ero l’unica femmina.
A scuola ogni tanto non mi facevano giocare solo per il fatto che ero femmina. 
Un giorno all’oratorio l’allenatore dei pulcini mi convinse che potevo entrare nella squadra dei maschi che non c’erano regole precise, l’unico problema erano gli spogliatoi.
Mi mandò a casa con una sacca con la divisa e gli scarpini e rassicurazioni per mio padre che avrei fatto la doccia nei bagni degli arbitri.
Immaginatevi la faccia di mio padre e la fine che fece quella borsa di tela piena di cose preziosissime che avevo desiderato per anni.
Poi ho giocato a calcetto, allenato una squadra amatoriale (Elisa Valeria e Giu Bucky voi ve lo ricordate di sicuro) quando la spalla lussata non mi ha più permesso di giocare.
Quando vedo queste ragazze 20 anni dopo urlare gli inni delle loro nazionali mi viene da piangere, sono quello che viene dopo, quello che poi ce la fa, quello che viene dopo le nostre lotte a mani nude contro padri, oratori, cultura, strada. Contro tutti.
Orgogliosa di voi #ragazzemondiali

Ciao nonno.

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Eri un antieroe.
Davi tantissimo senza saper prendere, era difficilissimo volerti bene. Te ne sei andato ancora lucidissimo tanto da dire: sono confuso quando ti abbiamo chiesto, sul lettino del pronto soccorso dove sei rimasto 4 giorni prima che ti trovassero posto, se volevi tornare a casa o restare lì. Mi hai risposto che fisicamente era meglio l’ospedale, ma psicologicamente era meglio casa. Volevi morire a casa, ma abbiamo tentato in tutti i modi di allungare quei tuoi 90 anni il più possibile. Mentre ti giravamo su quella brandina, in mezzo ad altri 3 vecchi, in meno di 10mq – i parenti convocati ore pasti e poi cacciati malamente che ad un certo punto ho dovuto anche alzare la voce e chiedere rispetto per tutti – bestemmiavi di dolore e volevi che ti coprissimo per cambiarti, la tua dignità che si andava ad infrangere sulle tue ossa che cedevano, ho visto le tue gambe e ho capito che non avresti più camminato, che non eri scivolato quel giorno in bagno, ma eri franato, semplicemente, come roccia che si frantuma in sassolini, si stacca, viene giù. Ieri sera hai chiesto una pistola per farla finita che tu a casa con il pannolone non ci saresti tornato. Ateo, agnostico, miscredente, anarchico con le foto di tuo padre che assisteva messa con Padre Pio attaccate per casa, le foto dei tuoi figli, della tua prima figlia – dietro una foto di mia madre piccola stasera ho trovato scritto “Rina, amore mio”, la figlia-sorella, la figlia che non ti aspettavi dalla tua vita di studente di fisica che perdeva tempo a giocare a calcio sul piazzale della Sapienza pensando che la gioventù sarebbe durata per sempre e invece quell’amante matura, mia nonna – figlia di un’attrice ungherese e di un imprenditore che s’impiccò per i debiti con gli strozzini romani – l’interruppe così bruscamente. E la tua foto che giochi a scacchi con Anthony Quinn quando avevi fatto la comparsa perché eri bellissimo tanto bello – con quei capelli biondi, gli occhi azzurri e quei modi da lord inglese appena tornato dalla Grecia – che in un pub inglese – dopo la guerra – un uomo si stupì che fossi italiano e soprattutto che avessi violato quel cartello all’ingresso: no nigger and italian people.
Anarchico alla fine, fanatico del Bing Bang, del mistero della vita, della biologia che mischiava e teneva insieme e separava, balilla da piccolo, scappato di casa per arruolarti nella RSI (avevi forse nemmeno 14 anni) poi riacciuffato da un amico dei tuoi – il famoso Pettenati del Cai che poi fece conoscere mio padre e mia madre – e nascosto (ormai disertore) dai gesuiti insieme a coetanei ebrei e forse Hugo Pratt.
Una volta da piccolo, tutto vestito da Balilla che andavi al sabato fascista, una donna ebrea ti aveva dato un passaggio e ti aveva messo confusione chiedendoti perché ce l’avevate tanto con loro. Non sei mai caduto nei luoghi comuni della politica, osservavi tutto con sardonico distacco (a volte mi dicevi: l’amico tuo Renzi come sta?), l’unico anticomunismo ce lo avevi con la famiglia di mio padre – gli intellettuali comunisti – perché ce l’avevi con mio padre e quindi tiravi in mezzo tutto dal 1964 – quando mamma e papà si erano conosciuti sulle dolomiti – al 1991 quando mi hai portato via di casa con un furgone e abbiamo attraversato l’Italia.
Durissimo con i tuoi figli, generoso con me e con un limite da nonno che ti ha impedito negli anni in cui mi hai fatto da padre, di usare la stessa inflessibilità. Ad un certo punto scienziato curioso del genere umano, aperto a tutto e nello stesso tempo vincolato alle dinamiche di un patriarca. Solo una volta hai chiamato Claudia: “la tua compagna”, altrimenti dicevi: “salutami i tuoi orientamenti”. Epico nello scusarsi, folle abbastanza da avere cambiato la mia vita in un giorno d’estate del 1991. La mia porta per un’altra storia. Se sono quello che sono lo devo a te più che a chiunque altro, a quel gesto eroico, coraggioso, l’ultimo miglio di un lavoro certosino, il tuo colpo teatrale.
Avevi un debito inconsolabile con tua figlia, mia madre, che hai saldato abbondantemente con me. Detestavi il mio impegno politico, forse perché ci vedevi l’altro pezzo di famiglia, come se preferissi loro a voi con quella storia così allineata, però venivi a prendermi la sera, alla fine dei consigli d’Istituto o durante le occupazioni e mi dicevi che ti ricordavo quel detto antico: che anche le pulci hanno la tosse, era il tuo modo di sdrammatizzare.
Nonno che la terra, il mare, gli elementi tutti che ti affascinavano e sconvolgevano, ti sia lieve.

Diario di bordo di un tutore e di un migrante non accompagnato #4

Non ho mai visto una faccia cambiare tempo così rapidamente, come il cielo di un paese del Nord Europa. Ypsilon porta con se il sole dei suoi 16 anni, la stessa allegria e vanità dei suoi coetanei europei quando mi dice che tifa Barcellona e che la giacca che indossa gliel’ha prestata il suo compagno di stanza eritreo. E porta con se delle nuvole grigie, cariche di tempesta, prive di pietà che sono di un’altra età, di un ‘altra era geologica emotiva, quando commenta il parcheggiatore abusivo dicendo che “lavoro anche lontano, no chiedere soldi, perché non parte a cercare lavoro come io?” oppure quando mima il movimento della barca nelle onde che dalla Libia lo ha portato in Italia. Socchiude gli occhi per ritrarsi timido, si tormenta un ricciolo quando lo tartasso di domande. Spalanca gli occhi oltre le mie spalle quando passiamo molto tempo in silenzio perché entrambi dobbiamo cercare le parole io per farmi capire lui per farmi capire. Non ho mai visto un volto così è come se parlasse, come se ogni segno, ogni espressione fosse la Bibbia intera, l’Odissea e l’Iliade e tutti i libri di formazione che ho letto. E’ incredibile quante parole e quante stagioni e quanta metereologia ci siano sul volto di un sedicenne.

Diario di bordo di un tutore e di un migrante non accompagnato #3

La puntata #1 qui.

La puntata #2 qui.

“Cosa hai imparato questa settimana?”
“….”
“Facciamoci aiutare da Google”
La signorina di Google traduce il mio italiano. Parla arabo. Io non capisco. Lui si illumina.
“Ah sì! Luce, notte, bocca, orecchie, naso…”
Giochiamo a ping pong, siamo rimasti lì mentre gli altri sono andati al centro commerciale (io non ce lo volevo portare e lui non c’è voluto andare). Vinco io 5 partite a 21 su 5 anche se sui primi punti se la gioca poi si innervosisce come succede a me quando gioco con Giu Bucky.
Mi sfida a biliardino dove sono una sonora schiappa e mi batte (come ben sa Silvia Greco)
Passeggiamo intorno al centro. Siamo due taciturni. E la lingua per ora non aiuta.
“E la Libia?”
“Prigione. Mafia.” E agita i polsi mimando le manette.
“E tu lo mangi il maiale?”
“Io? Uhm un pochino.” Mento.
“Un pochino e un pochino e un pochino e poi…” e poi fa il gesto dell’ingrasso.
Ypsilon è totalmente analfabeta ma è pieno di buonsenso.

Diario di bordo di un tutore e di un minore migrante non accompagnato #2

Per la prima puntata qui.

Alle 9. Ci sono, sono puntuale. Alle 9? Posso venire anche prima se necessario perché Esse (il nome è di fantasia) ha fatto la notte ed è l’unico che parla arabo e aspetta me per andare a dormire. Esse è scappato dalla Siria con la famiglia, dalla guerra. Arrivare in questo centro di prima accoglienza ospitato dalla profondissima periferia romana (di cui ovviamente non vi darò alcun riferimento) di sabato mattina è una passeggiata, Roma al mattino del sabato è deserta e si accorcia. E’ come se fosse più piccola. Per tutta la mattina mi scuso con Esse che alla fine oltre a me aspetta altre due tutrici per aiutarle a parlare con i ragazzi assegnati. Adesso vai a dormire, Esse, dai, continuo a dire. E ogni volta che lo guardo, alto, indoeuropeo che sembra altoatesino mi devo continuare a dire che quel corpo è come quei corpi che vedo in televisione, mi sento come il bambino degli anni ottanta che non aveva mai visto una mucca e pensava che le mucche fossero viola come quella di una marca di cioccolato.

Quando arrivo Ypsilon non c’è. E’ su, in camera, che si fa bello perché venivi tu. Parliamo. Apriamo la cartella. Abbiamo avuto la fotocopia del documento, l’ha mandata la famiglia dal Marocco. Non ha più 17 anni, ne ha 16 e mezzo. Ha più tempo. Questa è la prima bella notizia. Firmo le deleghe perché possa fare le visite mediche a fine mattinata firmerò anche il piano formativo, lunedì ho firmato anche il permesso per mandarlo a giocare a calcio una volta a settimana.

Da lunedì Ypsilon va a scuola ad imparare l’italiano. Ieri sera pensavo ma ha senso fare imparare ad uno che viene dall’Africa una lingua che parla solo una nazione, pari allo 1% della popolazione mondiale? Non avevo mai pensato a quanto siamo piccoli nel mondo. Non sarebbe meglio mandarlo a scuola di cinese, di inglese o di spagnolo? L’italiano è un’opportunità o potrebbe essere un’occasione sprecata? Ci penserò. Ad Ypsilon piace giocare a calcio, ho fatto l’errore di chiedere se gli piace nuotare, glielo ho chiesto 3 volte. Quando uno è duro di comprendonio. Ed Ypsilon vuole fare il barbiere, come il fratello, se ne è andato da dove stava in Sicilia perché non lo facevano studiare (perdo tutto questo tempo, attraverso mezza africa del nord, mi faccio 3 mesi in Libia, mi pestano che ho i segni del naso rotto e di piccole cicatrici di cui chissà se ho memoria della storia di come mi si sono scheggiate nel viso, come gocce di olio bollente per starmene a ciondolare? Anche no.)

Da sabato so un sacco di cose in più. So che esistono scuole per adulti nelle nostre scuole medie di periferia che funzionano anche la mattina (le cose che immagini siano di sera come quando ci andavano gli operai che ho conosciuto), so che esistono scrittori che aprono scuole per insegnare l’italiano agli stranieri, so che (forse qualcuno me lo aveva anche detto) un nordafricano può essere razzista con uno del corno d’Africa e chiamarlo scimmia e ho fatto la mia prima ramanzina che suonava più o meno così: tu per me (me inteso come Italia) sei nero, ricordati che c’è sempre qualcuno più nero di te, ma tu sarai sempre il nero di qualcuno. Siamo tutti uguali. Sì ho detto proprio così senza usare giri di parole ho detto questa cosa banale e stupida. Esse ha tradotto. Lui ha fatto cenno di sì con la testa, ha sorriso. Sorride sempre, ha un bellissimo sorriso dentro una faccia piena di schegge e sotto ad un naso rotto. Gli è rimasto comunque un bel naso.

Ypsilon vuole fare il barbiere. Se qualcuno sull’argomento ha idee, non avendo io la più pallida idea di come si diventi il barbiere più bravo di Roma, scrivetemi in privato.

Diario di bordo di un tutore e di un minore migrante non accompagnato #1

Ho voglia di raccontarvi questa storia (e cercherò di farlo d’ora in poi), questa storia di fare il tutore di minori stranieri non accompagnati, questa cosa con il nome lunghissimo che nelle slide del corso veniva abbreviata così: MSNA.

Questa cosa è cominciata in autunno insieme a quasi (credo) altre 900 persone in tutto il Lazio. Due cose lampo: il corso è stato bello, forse per chi era del mestiere (avvocati, psicologi, assistenti sociali) ridondante, per noi non addetti alla materia un bel colpo nello stomaco. Molti di voi quando sentono la parola minore pensano subito ad un bimbetto, invece il 95% dei ragazzi che arrivano hanno tra i 16 e i 18 anni e sono maschi. Sono quelli che riescono a fare il viaggio da soli. Quelli che sopravvivono. Le ragazze sono pochissime (anche se partono, non arrivano, fanno un altro giro, indovinate…) anche se oggi 3 delle persone che hanno giurato con me avevano 3 ragazze somale ed è stato considerato il miracolo del giorno.

Questa storia è cominciata in autunno dicevo e non ho mai ringraziato il garante dell’infanzia del Lazio Jacopo Marzetti che, almeno a noi del primo corso, non ha fatto mai mancare la propria presenza. Immaginatevi io che rompo sempre le palle che la prima volta che l’ho visto spuntare ho subito pensato “ecco sarà il solito che viene a fare la passerella” poi ciao. Invece no. Sempre presente anche quando non era necessario, uno davvero curioso di capire chi diavolo erano questi pazzi che nel pieno della criminalizzazione delle ONG e della gara a chi era più razzista degli ultimi 6 mesi si catapultavano in viale giulio cesare di venerdì pomeriggio a farsi un corso di 4 ore.

Un corso in cui non ci hanno insegnato a cambiare pannolini, ma cosa sia la sindrome post traumatica da stress, come si determina l’età di un essere umano senza documenti e i fondamenti dell’ascolto. E cosa accade in Libia. Cosa fare se il minore che ti affidano commette un reato perchè magari finisce nel giro sbagliato in un Paese che non ha ancora trovato la cifra dell’acccoglienza. Insomma cose così che tu tornavi a casa pensando: ma a me chi me lo fa fare o pensando che quel problema era così grosso che tu ti sentivi la minuscolaggine universale.

In questi giorni sono iniziate le prime assegnazioni.

I nuovi tutori avranno affidati solo i minori arrivati dopo il 5 marzo. Quelli arrivati prima seguono la legge che c’era prima, niente tutore.

Un po’ di confusione iniziale. Il casellario giudiziale serve o no come dice la nomina? E la marca da bollo? Ho scoperto che esiste un ufficio dedicato al Casellario Giudiziario. Arrivi e ti chiedono: avvocato? Ovviamente non vogliono sapere cosa sei. Solo se sei avvocato. Il resto del mondo passa per il metal detector (spero anche gli avvocati, ma in altro modo, non lo so, voi lo sapete?). Prendi il numeretto. No, non serve, hai prenotato la visura on line, per fare meno fila, ma la fila più lunga è di quelli che hanno prenotato on line. Allora fai la fila e siccome fai il manager scassaminchia ti guardi intorno, noti questa tappezzeria da ufficio pubblico, tutti questi fogli A4 appesi ovunque, ogni tanto con lo scotch che demorde e fa un’orecchietta che tu avresti voglia di strappare tutto, comprare una bacheca, regalargli delle puntine a tutti questi uffici pubblici per evitare questa cosa dei post-it formato A4.

Non chiedete informazioni allo sportello.

Lo sapevate? Ora potete prenotare on line.

Per le marche da bollo dall’altro lato.

Una specie di tracciato che unisce emotivamente tutti gli uffici pubblici d’Italia, fatto di fogli A4 che danno avvisi, divieti, consigli. Ti chiedi come mai mi hanno fatto venire qui se: ho lo spid (identità digitale) e siamo nel 2018. Ma non potevano mandarmelo via mail? O mandarlo direttamente al tribunale? O meglio il tribunale non poteva avere un database e prima di farmi fare il giuramento sapere che non avevo carichi pendenti? Io devo dire al Tribunale una cosa che un ufficio di giustizia sa meglio di me. Cioè devo dire a loro una cosa che loro sanno già. Intanto calcolavo quanto diavolo stavo inquinando ad avere fatto tutto quel giro per Roma (la burocrazia inquina, lo sapete?)

E’ il mio turno. Scriva qui il numero della sua pratica, con parsimonia (nel senso usi poco spazio che poi sto bigliettino lo uso per un’altra pratica). Scrivo. Torna. La nomina? Eccola. E agito ingenuamente il cellulare. Eccola. Non va bene. Come non va bene. Ho il documento. Non lo sapete che sono stata nominata. No. Posso mandarle una mail che la stampa? Non abbiamo mail, vada al bar. Al bar? Sì, al bar. Al bar con 1,20€ ti stampano quello che vuoi (credo 0,60 a foglio…al bar che sta dentro uno dei palazzi di giustizia si sono inventati un business più redditizio del caffè, dei geni!). Torniamo indietro, il tipo senza mail (come si fa a non avere una mail in un ufficio pubblico nel 2018) non c’è più. Rifaccio la fila. Riscrivo il numeretto sul foglietto. Nel mentre una signora capisce che io e un’altra dietro a me siamo aspiranti tutori e ci dice che non solo la marca da bollo non serve, ma non serve nemmeno più il casellario. Comunicazione di ieri. Basta l’autocertificazione che faremo lì. Ok, grazie, ce ne andiamo, vuoi un passaggio sei a piedi? e mi porto via ICS (per voi X) che nella vita fa l’assistente sociale e che mi racconta cose agghiaccianti sugli affidi e quanto spesso gli adulti restituiscono i bambini, di un bimbo di 1 anno che non per burocrazia non viene dato in adozione e che loro ogni settimana vanno dove devono andare e rimettono la sua cartellina in cima. Che prima di dichiarare lo stato di abbandono passano 90 giorni e 90 giorni sono un’eternità per un bimbo ma noi ci preoccuvamo tutti dell’utero in affitto fino ad un anno fa adesso se vedete non gliene frega più un cazzo a nessuno e di sicuro a nessuno frega nulla di questi bambini di cui sono pieni i centri perchè alcuni sono troppo grandi, alcuni sono neri, alcuni storti, alcuni un ragazzo gay se li voleva adottare dopo anni di continuità affettiva e non glieli hanno dati perchè era gay. Succede anche questo.

Quindi da Prati andiamo a Via Giulia dove c’è il tribunale dei minori (come se fosse una passeggiata scorrazzare per Roma di venerdì mattina, cercando parcheggio due volte e non mi dite che potevo andare coi mezzi che altrimenti vi dò una capata). Mentre guido e parcheggio nel parcheggio sotterraneo (e penso a Guzzanti che imita Rutelli: Cittadino! Ti ho fatto il parcheggio sotto casa!) penso porca miseria, ma quante cose ancora da fare in questo Paese, a cosa serve tutta questa burocrazia, tutti questi fogli A4 appesi negli uffici pubblici, tutte queste file, tutte queste formalità e poi la marca da bollo….santoddio a cosa serve la marca da bollo! Altro che digitalizzazione siamo nel medioevo.

Arriviamo. Saliamo. Aspettiamo nella saletta del presidente. Giuriamo. Apriamo il fascicolo. Ognuno di noi sfoglia. Legge. Fermatevi un attimo che vi ho fatto correre fino a qui. Poche righe nel primo foglio. Meno di dieci righe.

Ypsilon (per voi d’ora in poi sarà Ypsilon) ha 17 anni. Viene dal Marocco. E’ in Italia da 6 mesi. E’ arrivato a Roma da poco, dalla Sicilia. Ha passato 3 mesi in Libia dove gli hanno rotto il naso, lo hanno pestato e rubato i documenti. Non aveva soldi per il viaggio, non so ancora come abbia pagato il viaggio. Glielo chiederò. Suo padre fa il contadino dice la scheda, sua madre casalinga, chissà quante cose può insegnarmi Ypsilon su come si coltiva la terra e chi glielo dice che c’è un pezzetto di me radicalchic del cazzo che vorrebbe coltivare la terra e fare il vino e l’olio, quello mi sputa se glielo dico. Oppure mi dice che dipende dalla terra e da cosa tira fuori. Domani vado a conoscerlo e vediamo cosa imparo (di sicuro a ridimensionare molte cose)

Ciao Fiat.

(english version below)

Ciao Fiat. Eh, ciao Fiat pare facile a dirsi dopo 14 anni.

Allora invece di Ciao, dirò Grazie.

Grazie, sentite quanto è una bella questa parola, dovremmo imparare tutti a dirla più spesso. Le Grazie erano le figlie di Venere e Giove e la parola Grazie, come potete immaginare, contiene anche la parola bellezza. Pensate quante cose si trasmettono quando diciamo grazie a qualcuno.

Grazie perché in questi 14 anni ho imparato tutto, girato l’Italia e anche un piccolo pezzo di mondo.

Ho imparato moltissimo da colleghi di ogni grado, livello e provenienza. Ho imparato dagli imprenditori che ho incontrato. Ho imparato moltissimo dagli operai, soprattutto dai “miei” colleghi operai di Napoli. Da chi si è preso il diploma di notte, da chi sta crescendo i figli da solo, da chi si vuole sposare, da chi non riesce a sposarsi. Ho imparato dai manager che mi hanno gestito, dalle persone che ho gestito dai colleghi con cui ho lavorato e condiviso. Ho imparato dagli imprenditori a cercare idee per sopravvivere al tempo della crisi. Cambiare, evolversi, imparare. E’ stato uno spettacolo meraviglioso vederlo accadere. E’ stato uno spettacolo meraviglioso poter “ascoltare”. Solo con l’orecchio a terra puoi prendere la decisione giusta e il rumore non è mai solo quello del mercato, deve essere anche quello delle persone con cui lavori.

Grazie a chi di voi ha avuto fiducia in me. Grazie a chi mi ha lasciato sbagliare, a chi mi ha insegnato a far girare le informazioni e non usarle come arma di potere, ad essere trasparente fino all’ingenuità, a condividere, parlarsi, rispettare le persone, a difendere le proprie persone, ad accompagnarle perché non c’è niente di male a chiedere e dare aiuto sul lavoro, ad accettare la dialettica come valore e non come indisciplina. Grazie a chi mi ha insegnato (facendolo con me) che fare il manager “bene” ha anche un risvolto etico, una responsabilità sociale, un dovere politico. Che un altro modello di leadership è possibile.

(Grazie anche a chi è stato l’esatto contrario. A volte, purtroppo, capitano anche loro, sono come i sassolini nelle lenticchie: anche se pochi fanno danni ingentissimi. Anche da loro si impara tantissimo, se si sopravvive)

A mia volta ho imparato, spero, a fare lo stesso con le “mie” persone. Ogni giorno. Soprattutto quando le cose non andavano bene. Soprattutto in quel caso, se no, come si dice a Roma, so’ boni tutti. A mia volta grazie a tutte le persone che ho gestito. Grazie perché si sono presi la libertà e l’hanno trasformata in responsabilità. Grazie a chi si è fatto accompagnare un po’ di più, a chi mi ha chiesto aiuto senza avere paura di farlo (non abbiate mai paura di farlo) e a chi invece mi ha chiesto “lasciami fare” (non abbiate mai paura di farlo) e se lo meritava e ha sfidato la parte più difficile del manager: dare delega. Non è stato sempre facile neanche per me, presuppone fiducia e profonda capacità di comunicazione emotiva.

Grazie a tutte le persone che hanno cominciato a scrivermi in questi giorni per chiedermi come stavo perché la notizia che me ne vado cominciava a girare. Grazie agli amici, tantissimi amici, che resteranno per sempre, come è normale che sia quando si costruiscono ponti e si “sta” nelle cose davvero. Non sarei quello che sono senza questi 14 anni, senza ognuno di voi. Sono stati gli anni più belli della mia vita e a volte anche i più difficili, certo.

E’ stato un onore fare parte di “questa” storia, difendere il lavoro fatto con quelli che fuori non ci credevano, combattere il pregiudizio (eh, sì) ed essere insieme consapevoli delle cose ancora da fare e da cambiare, perché in questi 14 anni non ci siamo mai fermati, non eravamo mai, giustamente, contenti. Io non lo ero mai. Vi auguro di continuare a scrivere quella storia.

Nel farlo vi auguro anche, però, di trovare il tempo di alzare la testa e di guardare sempre le vostre persone, di ascoltarle. Trovare il tempo per loro, sempre. Trovare il tempo di costruire valore. Di lasciare qualcosa. A volte di dire no se pensate che la direzione non sia quella giusta per l’azienda, malgrado possa essere quella giusta per la vostra carriera (uno degli aspetti più pericolosi e dannosi in un’azienda, da cui ci dovrebbe difendere con sistemi di allarme avanzatissimi).

Gli inglesi usano una bellissima parola, dicono “engagement”. Il fattore che fa la differenza tra il poter “andar bene” e il poter eccellere. L’engagement è un fattore emotivo. Non costa nulla, ma è uno dei patrimoni più preziosi di un’organizzazione. Ed è la cosa più difficile da generare. Non rinunciate mai ad ingaggiare le vostre persone, i vostri colleghi, i vostri partner.

Vi auguro di rifiutare compromessi e scorciatoie, di poter essere “consistenti” e credibili e soprattutto di lasciare sempre le cose migliori di come le avete trovate. Ecco se c’è una cosa che ho imparato in questi anni è che le cose vanno sempre lasciate meglio di come le si è trovate e credo di avere sempre lavorato per questo.

Ciao Fiat, adesso è davvero il tempo di dire Ciao.

“Se vuoi costruire una barca, non radunare gli uomini per tagliare legna, dividere i compiti e impartire ordini, ma insegna loro la nostalgia per il mare vasto e infinito. Antoine de Saint-Exupéry”

Cristiana.

Ciao Fiat. Eh, Ciao Fiat. after 14 years it seems easy to say. Then instead of Ciao, I’ll say Grazie. Grazie, hear how beautiful this word is, we all should say it more often. The Grazie were Venus and Jupiter‘s  daughters and the word Grazie, as you can imagine, also contains Beauty. Think about how many things we convey when we say Grazie to someone.

Grazie for all I have learned in these 14 years. I had the opportunity to see a big part of Italy and a small piece of the world. I have learned a lot from colleagues of every degree, level and provenance. I learned from the entrepreneurs I met. I learned a lot from the workers, especially from my fellow workers in Naples.  From whom get their diploma studying during the night, from whom is bringing up their children alone, from whom want to marry his or her spouse, from those who can not get married. I learned from the managers who managed me, from the people I managed, from the colleagues I worked with and shared with. I learned from entrepreneurs who were looking for ideas to survive during crisis times.

Change, evolve, learn. It was a wonderful show to see it happening. It was a wonderful show to be able to “listen”. Only with the ear on the ground you can take the right decision and the noise is never only the market, it must also be the one of the people you work with. Grazie to you who trusted me. Grazie to you who let me being wrong, to those who have taught me to turn the information around and not use them as a power weapon. Grazie to whom taught me to be so transparent to seem ingenuous, to whom taught me to share, to talk, to respect and to defend their own people. Grazie to you who taught me to support people because there is nothing wrong in asking for and giving help, accepting dialectic as a value, and not as a rebellion.

Grazie to whom taught me (doing it with me) that being a good manager is also an ethical and social responsibility, a political duty. Through this I learned that another leadership model is possible.

(Grazie also to those who were exactly the opposite. Unluckily, sometimes there they are, like pebbles in the lentils: even if few people, they do great damage. If you survive to them, you can also learn a lot from them).
In my turn, I learned, I hope, to do the same with my “people”. Every day. Especially when things did not go well. Especially in that case. Grazie to all the people I managed. Grazie for having taken freedom and turned it into responsibility. Grazie to those who have been supporting a bit more, to those who asked for help without being afraid to do so (do not ever be afraid to do it). Grazie to those who asked me “let me do” (do not ever be afraid to do it), they deserved it and they challenged the hardest part of the manager: to delegate. It has not always been easy for me, it required trust and deep emotional communication skills.

Grazie to all the people who started writing to me these days to ask me how I am. Grazie to all the friends, lots of friends, who will stay forever, as it is normal when you build bridges. I would not be what I am without these 14 years and without each one of you. These 14 years were the most beautiful of my life,  sometimes even the most difficult, of course.

It was an honor to be part of this “story”, to defend the work done with those who did not believe in it, to fight prejudice (eh, yes) and to be together, with the awareness about the things to do and to change direction. In these 14 Years we never gave up, we were never satisfied. I never was. I hope you continue writing this story. In doing so, I also hope that you will find time to raise your head and always see your people and listen to them. I hope you will find time for them, always. Find time to build value. Leave something. Sometimes say no, if you think that the direction taken is not the right one for the company, although it may be the right one for your career (one of the most dangerous and damaging aspects in a company that we should defend with very advanced alarm systems). The British use a beautiful word, “engagement”. It is the factor that makes the difference between being able to “go well” and to be able to excel.

Engagement is an emotional factor. It does not cost anything but is one of the most precious assets in an organization and it is the hardest one to generate. Never give up in engaging your people, your colleagues, your partners. I wish you to reject compromises and shortcuts, to be “consistent” and reliable  and above all to leave things better than they were. Here it is what I have learned in these recent years: things should always be better than they were. I think I have always tried to do this.

Ciao Fiat, now it’s really the time to say Ciao.

If you want to build a ship, don’t drum up people to collect wood and don’t assign them tasks and work, but rather teach them to long for the endless immensity of the sea. Antoine de Saint-Exupery

Cristiana.

Stare da una parte o della dissidenza.

in Italia dovremmo rivedere cosa significa stare da una parte. Per la maggior parte di noi “stare da una parte” e’ difendere quella parte anche davanti all’evidenza dell’errore.
Criticare anche una sola volta e’ tradimento, significa varcare la soglia della “casa”, uscire per il bosco oscuro, inseguiti dalla sassaiola,
Per questo la maggior parte preferisce “restare dalla parte” sempre (ci sono anche quelli che criticano quando hanno gia’ “un’altra parte”, eh).
Quindi si perde la capacita’ di criticare, si ha paura di farlo, quella buona pratica che e’ discutere, criticare per cambiare. La critica viene vista come distruzione: a sinistra e’ il tipico approccio comunista sovietico. Il critico e’ oppositore. il dissidente. Va distrutto con qualsiasi mezzo. Azzerato. La sua distruzione diventa piu’ importante del cambiamento, diventa meta finale, non parte di una visione. Per cui si perde di vista la visione. Resta solo il nemico.
 
Mi piace pensare (in coppia, in azienda, in politica) che stare da una parte significa sollevare i problemi per cambiare. Fare meglio. Crescere. E sopratutto non essere spazzati via: da un’amante, da un competitor, da un movimento populista.
La natura del nostro Paese secondo me e’ racchiusa in questa mancata maturita’ che e’ personale e collettiva insieme. Dobbiamo trovare il modo di evolverci per sopravvivere.

Un piccolo gesto per Amatrice.

Con Francesca Moraci che siede con me nel Consiglio Di Amministrazione di ANAS abbiamo deciso di versare il 100% del nostro emolumento di settembre al comune di Amatrice. Un piccolo gesto che si aggiunge alla immensa solidarieta’ che molti dipendenti di Anas stanno dimostrando insieme al resto del Paese. E’ nostro desiderio contribuire ad una sana ricostruzione che e’l’unico modo per onorare quella terra e i suoi morti.